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Ha debuttato ieri sera al Teatro delle Moline di Bologna, dove sarà in scena fino al 22 dicembre, Algoritmo d’autore di quotidanacom.
Riferimento testuale di partenza (“trampolino”, per dirla con Jerzy Grotowski), Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello.
Lo spettacolo esplora i confini sottili tra presenza umana e macchina, tra attore e performer: non si tratta solo di una distinzione terminologica, ma di un’indagine sull’essenza della rappresentazione.
Roberto Scappin e Paola Vannoni non si limitano a interpretare un ruolo: incarnano due algoritmi antropomorfi, Al e Go, con una fisicità lignea e burattinesca che sembra ricalcare la forma-pensiero del performer, in cui il corpo stesso diventa linguaggio, piuttosto che quella dell’attore, che tradizionalmente incarna e interpreta un personaggio.
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SUSSURRI E FRAMMENTI: LA PAROLA COME CODICE
Il ritmo è scandito da sussurri sincopati e in controtempo, una musicalità del linguaggio che richiama le irregolarità del codice binario.
Questo andamento discorsivo è indice di una cifra stilistica ben definita del duo, in cui la forma diventa parte integrante del contenuto.
Qui la “tragedia tutta esteriore” (autocitazione che rimanda a una loro precedente produzione) si traduce in una rinnovata centralità del linguaggio verbale, inteso come dispositivo critico che forza la ricezione.
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PERSONAGGI SENZA TEMPO: DIALOGHI TRA DISINCANTO E IRONIA
Il nichilismo che emerge è, come sempre, dolente e arguto, con l’acutezza di chi sa di scrutare il mondo con sguardo disincantato.
I dialoghi evocano il sarcasmo spietato di Oriana Fallaci, le sue domande taglienti e la sua visione disillusa della società, il disincanto febbrile di Louis-Ferdinand Céline, con i suoi personaggi costantemente in bilico tra cinismo e disperazione, e la vena popolare e affabile del Commissario Montalbano, con il suo linguaggio colorito e la sua saggezza pratica.
La presenza evocata di Cyrano è richiamata e moltiplicata attraverso il naso rosso da clown, che non è solo una maschera comica, ma anche un segno di vulnerabilità e malinconia.
Lo spettacolo propone un intreccio, mescolando elementi della “cultura alta” (come riferimenti letterari e filosofici) e della “cultura bassa” (come personaggi della cultura pop o della narrativa di genere).
Questo approccio crea un tessuto intertestuale denso, un insieme di rimandi e citazioni incrociate: una pratica non nuova per quotidianacom, che in tutti spettacoli precedenti hanno adottato una strategia simile per destabilizzare lo spettatore, costringendolo a confrontarsi con significati stratificati e ambigui.
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PRESENZE-ASSENZE E IL PARADOSSO DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
La presenza dell’intelligenza artificiale inverte la dinamica consueta: non sono gli esseri umani a interrogare l’IA, ma spesso è l’IA a porre domande agli umani.
Questo rovesciamento stimola la riflessione sull’autocoscienza delle macchine e sulla loro capacità di fare domande, un aspetto che richiama le interazioni paradossali delle macchine di Alan Turing, in cui non è più chiaro chi detiene il controllo della conversazione.
Le domande dell’IA, lontane dall’essere puramente strumentali, assumono una valenza esistenziale, spingendo i personaggi a rivelare le proprie fragilità e contraddizioni.
Questa dinamica ha uno scandaglio ulteriore grazie all’uso delle voci registrate di un vecchio allestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore: esse si manifestano come presenze-assenze, veri e propri fantasmi scenici.
Non semplici richiami sonori, queste voci agiscono come un contrappunto narrativo e temporale: sono echi di un passato teatrale che insiste nel presente, amplificando la tensione tra il “qui e ora” del teatro e la memoria persistente della registrazione.
Il termine “persona” nel suo senso etimologico di “maschera” si rivela particolarmente pertinente: le voci disincarnate incarnano, a loro volta, una presenza scenica che non si vede ma si percepisce.
La dialettica tra presenza e assenza si traduce, dunque, in una metafora più ampia sul senso stesso dell’essere in scena e sul confine labile tra l’essere e l’apparire, uno degli assi portanti del teatro tanto pirandelliano quanto di quotidianacom.
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IL CONFINE TRA IL TEATRO E IL MONDO
In scena, accanto a Paola e Roberto, appaiono altre due presenze, Cristina Matta e Romano Trerè: figure del mondo, complementari alle figure del teatro Scappin e Vannoni.
La loro presenza introduce un confronto tra realtà e rappresentazione, con una mai risolta tensione tra essere e apparire.
Vien da pensare agli angeli de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, testimoni silenziosi e osservatori della vita umana.
E a Beckett: non è solo la funzione di osservazione a richiamare Aspettando Godot, ma anche il tempo sospeso e il senso di un accadimento che non si realizza mai.
L’andamento scenico riprende il ritmo dell’attesa beckettiana, con un senso di rarefazione che è sia scenico che esistenziale.
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IL SUONO DEL DUBBIO: BENEDETTO MARCELLO E L’ECO DELLA RAPPRESENTAZIONE
Il richiamo a Benedetto Marcello nel finale risuona come un’eco che non si spegne, evocando l’idea di un ritorno circolare e, forse, di un’impasse.
Più che una conclusione, si percepisce un’apertura su uno spazio di riflessione: se la rappresentazione non si chiude mai definitivamente, qual è il senso del suo ripetersi?
La musica, qui, non è mero accompagnamento ma dispositivo critico, strumento che interroga il tempo e la forma stessa della scena: è, parallelamente al linguaggio verbale, elemento di straniamento.
Come già accaduto nei precedenti spettacoli di quotidianacom, ciò che è udibile amplifica le tensioni tra ciò che è detto e ciò che è taciuto.
Il pubblico, posto di fronte a questo cortocircuito, non può che chiedersi: è la scena a interrogare il pubblico, o è il pubblico a interrogare la scena?
Ancora: se il proprio linguaggio diventa l’oggetto principale della riflessione, c’è il rischio che l’opera si avvolga su di sé, perdendo il contatto con il mondo esterno?
O forse, proprio in questo movimento circolare, risiede il suo senso più profondo?
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