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Se nell’iconografia e nella numerologia nazista l’88 identifica le lettere HH (appunto l’ottava lettera dell’alfabeto) che stanno per Heil Hitler, da ora in poi il 666 diavolesco sarà affibbiato alla ripetizione della lettera P che, moltiplicata per tre, dà il risultato di Pier Paolo Pasolini. 666.PPP (visto al Teatro Caos di Chianciano terme) è già un titolo che buca lo schermo, la curiosità, la fantasia con queste lettere e numeri quasi sovrapponibili, come se fossero state messe allo specchio, come Narciso che si bea guardandosi nello stagno limpido, cadendovi. Uno è il contrario dell’altro o meglio, due facce della stessa medaglia. L’anno prossimo saranno i cinquant’anni dalla scomparsa del poeta di Casarsa della Delizia ma Manfredi Rutelli, drammaturgo e regista, si è mosso per tempo ed ha anticipato le celebrazioni. Anzi la gestazione di questo nuovo progettone parte dal 2019. Abbiamo usato un sostantivo accrescitivo e rafforzato perché la piece 666.PPP si compone della parte attoriale (a cura di LST Teatro), della sfera musicale live (ad opera della Tetraktis Percussioni) e delle proiezioni (composte dall’artista multimediale Andrea Bisconti).
Tre strati per scandagliare un lavoro complesso e composito, come un pozzo dove scavarci e trovarci sempre qualcosa di nuovo, di diverso, di eccentrico e originale. Partiamo dalla genesi: nel 1918 Igor Stravinskij, emigrato in Svizzera dopo la Rivoluzione Russa, insieme allo scrittore Charles Ferdinand Ramuz, mette in piedi un’operetta ambulante e viaggiante per suonarla e decantarla, come aedi, nei paesini elvetici e raccogliere qualche fondo per la sussistenza. Prendono due storie della tradizione sovietica con protagonista un soldato, il Diavolo e una principessa: l’uomo medio, le avversità della vita, la ricompensa. Si parla di povertà, di valori, di affetti e della lotta dell’uomo contro il maligno che non è fuori ma è dentro di noi. Un soldato ha soltanto il suo violino che non vale molto e il Diavolo gli propone di barattarlo con un libro dove ci sono scritti fatti ancora non accaduti (come in Ritorno al Futuro), con il quale potrebbe, scommettendo, diventare ricco. Il nostro passa alcuni giorni in compagnia del Diavolo nei quali uno insegna all’altro a suonare il violino e l’altro impara a decodificare il libro. Dopo questi giorni però si accorge che sono passati anni e che i beni immateriali di cui disponeva, l’amore della ragazza e l’affetto della madre, si sono volatilizzati, la prima sposata con un altro uomo, la seconda deceduta credendolo morto. Il nostro ex soldato, grazie al Libro, diventa ricchissimo ma si accorge che le uniche cose che vorrebbe non si possono comprare. Allora abbandona tutti i suoi beni (come San Francesco) e distrugge il tomo che predice l’avvenire tornando misero e senza un soldo. Ecco il tema dell’altalena sociale, da povero con valori a ricco spregiudicato ma infelice, poi nuovamente sul lastrico. Caduta e rinascita, sconfitta e risalita e ancora abisso e perdita.
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Nell’ultima parte, come nelle storie medievali, un Re ha emesso un bando per salvare la figlia dalla depressione e dall’afflizione, proprio perché posseduta dal demonio (come ne L’Esorcista). Il soldato batterà il Diavolo, troverà l’amore, la ricchezza e la serenità ma Lucifero ha sempre in serbo un asso nella manica: la maledizione e promessa-minaccia è quella che il nostro sfortunato sarà salvo solo se rimarrà nel suo Regno ma se oltrepasserà i confini la sua anima sarà presa dagli Inferi (che ricorda Orfeo ed Euridice). E così accade, senza alcuna scena consolatoria né lieto fine. Alla fine al Casinò vince sempre il Banco. Nella rilettura di Pasolini, dalla quale voleva girarne un film con Ninetto Davoli, c’è sicuramente il tema dei valori ancestrali familiari e le tentazioni, di Roma e della carne, così come nel finale la perdita di tutto, anticipando in qualche modo la sua uscita di scena drammatica, legata al superamento dei confini del suo regno, dalla sua comfort zone, la morte e la sconfitta su un terreno, quello della notte, quello della strada, quello dei ragazzi di vita, che ha altre regole che non si imparano ma si possiedono nel sangue e nel Dna. C’è l’innocenza e la corruzione, che in Pasolini si declina con la televisione da lui vista come il Male assoluto, c’è l’ingenuità e un’indagine sociologica e antropologica di un’Italia che stava cambiando, da rurale a industriale.
Nel nostro mondo consumistico, per avere successo, fama e cash, molti venderebbero (come il Faust di Goethe ma anche come ne Il Maestro e Margherita), l’anima al Diavolo, pagandone nell’Aldilà le conseguenze per l’eternità. Il tentativo di PPP non divenne mai una pellicola ma andò in scena sul palcoscenico del Festival di Avignone (a cura del Teatro Due di Parma) nel ’95 (a venti anni dalla scomparsa dell’intellettuale friulano) con tre firme eccellenti alla regia: Martone, Dall’Aglio e Barberio Corsetti. Da Stravinskij passando per Pasolini e arrivando a Manfredi Rutelli, innovazione innestata sulla tradizione. E Rutelli, che scrive e sa scrivere per il teatro, ha immaginato e sostituito la televisione demonizzata da Pasolini con i nostri telefoni cellulari che, con i social network e i loro algoritmi, fanno propaganda e creano mondi che non esistono manipolandoci. Quello che ne esce è un viaggio psichedelico, poetico e tecnologico, futuristico (quasi da Matrix) con l’attenzione spostata sui visori che ci portano in una second life, tra Avatar invece che vivere la nostra vita, in un universo parallelo virtuale che ci ingabbia e mette in sospensione la vita reale per intrattenerci con qualcosa di intangibile. E’ una versione multimediale, pronta e adatta anche per quelle generazioni più giovani che sono tra le più colpite (i nativi digitali) perché non sanno distinguere l’analogico dall’intelligenza artificiale e tutto quello che arriva dal web lo prendono come verità assoluta senza alcuna analisi dei dati, delle fonti, delle notizie.
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Il Diavolo che convince il povero allocco ci ha ricordato Lucignolo con Pinocchio anzi il Gatto e la Volpe con il burattino di Collodi perché questi ultimi erano consapevoli del danno che stavano commettendo. Belzebù offre sempre Paradisi Artificiali (che siano i bit coin o la droga) e Paesi dei Balocchi perfetti solo all’apparenza. Mettersi in mano alla tecnologia, anzi alla tecnocrazia, è molto pericoloso perché perdiamo il controllo di chi controlla il controllore. I visori ci regalano allucinazioni, portandoci in una realtà, senza conflitti o nella quale risultiamo vincitori, fasulla, finta, creata a nostra misura, senza relazioni, una realtà talmente calda e accogliente che ci spinge all’isolamento, all’autoconservazione, anzi al pensiero che si possa fare a meno degli altri perché ci bastiamo da soli e non abbiamo bisogno di nessun altro. La televisione di Pasolini o gli smart phone e i visori di Rutelli sono oggetti che l’uomo ha inventato per migliorare la propria condizione e che poi si sono ribellati all’uomo stesso, proprio perché hanno preso derive incontrollabili e, quando era possibile, non sono stati normati né limitati nelle loro funzioni.
Sopra la scena, dove si muovono e agiscono i tre attori solerti e operosi, Gianni Poliziani e Alessandro Waldergan (storici della compagnia LST) e Giulia Canali, sopra le loro teste si apre un cerchio con dentro un magma pulsante di lava incandescente e ribollente a testimonianza di un Inferno in terra. Bastano pochi anni al protagonista per non riconoscere più la sua città, il proprio quartiere; adesso tutto è stato trasformato con l’idea di una modernizzazione forzata e violenta: è aumentato il traffico e lo smog, la cementificazione, i grattacieli. Una realtà grigia e asfittica che spinge ancora più l’uomo verso il virtuale, quei mondi che non esistono e che, in quanto tali, sono belli e perfetti proprio perché non ci sono. Tutto è agognato ma quando l’obbiettivo viene conquistato il vuoto dell’insoddisfazione cresce ancora di più e niente riesce a placare, a calmare il bisogno d’amore, d’affetto, di vicinanza, di ascolto, di solidarietà. Non si può pagare un abbraccio o almeno un abbraccio pagato non avrà mai lo stesso calore di uno spontaneo. Riempirsi la casa e la vita di oggetti (Amazon docet) non ci porterà più felicità né serenità: è il consumismo, bellezza.
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Le macchine creano una società che non osa né rischia più, con bassa attenzione e che ha sempre bisogno viscerale di nuovi stimoli, di nuove cose per sostituire le precedenti. Le notifiche poi sono lo specchietto per le allodole, l’amo per il pesce, quel bip che ti dice Qualcuno ti sta pensando, taggandoti, Devi vedere assolutamente questo contenuto, per poi capire che era pubblicità, deludendoti. Le notifiche sono iniezioni di adrenalina, quel sentirsi popolari, e quindi voluti e amati e cercati che fa schizzare l’autostima. E’ un gioco psicologico e noi siamo vulnerabili marionette in mano al grande burattinaio del marketing. L’amarezza è tanta: Ho tutto e non ho niente, dice il protagonista. E ancora: Non conta più il vedere, conta solo l’essere visto, insiste dolorosamente. Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata in Photoshop. Immagini leccate, musiche nel vento. Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. Il Glamour è il paese dove non si arriva mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma. La vostra sofferenza dopa il commercio, ha detto Frederic Beigbeder. E’ nella ricerca forsennata e a tutti i costi del divertimento che ci annoiamo. Una bella sperimentazione, un interessante fumettone questo 666.PPP (il sottotitolo Quel Diavolo di Pasolini invece non ci è piaciuto, ci ha fatto venire in mente Benigni) che speriamo abbia vita anche lontano dalla provincia, una bella prova di cosa voglia dire fare ed essere comunità, di che cosa significhi unire le forze di un territorio, con grande vitalità appassionata, per creare arte e cultura.
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