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Nel senso comune più corrente, e le stesse polemiche tra ‘passatisti’ e ‘innovatori’ che accompagnarono la genesi di questa geniale “Opera Buffa” lo testimoniano, tradizione e modernità sembrano due concetti se non opposti quanto meno poco compatibili.
Nei fatti però, e tanto Il Cappello di Paglia di Firenze quanto, se vogliamo, la stagione stessa del Teatro Carlo Felice di Genova ne sono suggestiva evidenza, non solo la ‘tradizione’ è stata nella sua epoca ‘moderna’, ma anche la ‘modernità’, o come la si voglia in altro modo chiamare, non può essere tale se non si confronta, inglobandola mentre se ne stacca, con ciò, ed è la ‘tradizione’, che può e deve in qualche modo legittimarla.
Le fondamenta drammaturgiche di questa estetica operazione, che Nino Rota insieme alla madre Ernesta Rinaldi approntò nell’immediato secondo dopoguerra anche a confronto con le sue precedenti esperienze nel dramma serio, affondano infatti nell’ottocentesca modalità della pièce bien faite comica, che nel secondo ottocento trovò in Eugène Labiche, insieme a Georges Feydeau e Eugène Scribe, uno dei suoi migliori facitori e interpreti.
Scrive Glynne Wickham nella sua essenziale Storia del Teatro, a proposito di “quegli autori che, scegliendo di seguire un’idea personale di ciò che un testo teatrale deve offrire al pubblico, si staccano – retrospettivamente – con opere d’arte teatrale di durata maggiore di quanta gliene pronosticassero i critici contemporanei. Primi tra tutti sono gli autori di farse…”.
Non a caso con essi, e con i loro coetanei Dumas figlio e Sardou, si confrontarono le più grandi attrici a cavallo tra ‘800 e ‘900, da Eleonora Duse a Sarah Bernhartd.
Sono pièces che tra l’altro, e ben significativamente per la loro intima predisposizione estetica, introdussero l’utilizzo di stacchi e siparietti cantati e ballati, e che erano nel loro sviluppo incardinate sulle cosiddette scène a faire (quelle del colpo di scena in sostanza) con una modaltà che, scrive ancora Wickham, ben “si lega al mondo fantastico del surrealismo per la natura da incubo delle situazioni che mette in scena”.
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Qui emerge una seconda fecondissima ‘frizione’, oltre a quella tra tradizione e modernità, ed è quella che, sprigionandosi, trasfigura l’apparente leggerezza degli accadimenti nella profondità, psicologica e anche sociale, dei temi in essi accadimenti custoditi.
Così le maschere sceniche non sono soltanto schemi di personalità sociali ma si fanno personaggi/persone in cui precipitano le più diverse sensibilità che, a partire dalle figure del ‘matrimonio contrastato’, del suocero possessivo o del marito vecchio e cocu (comicamente ‘disinnescato’ dalle sue purtoppo tragiche e molto reali ‘pulsioni’), raccolgono un mutamento in corso nella società e negli individui di cui, inevitabilmente, era ed è cartina al tornasole il rapporto ‘erotico’ tra maschile e femminile.
La ricca partitura musicale di Nino Rota è il mezzo estetico che prima fa esplodere questa doppia frizione e poi la ri-compone, miscelando plurilinguisticamente e melodicamente, ma anche con evidente ironia, “Rossini, Puccini, Lehàr e persino Wagner”, come segnala efficacemente Enrico Girardi a margine del Libretto, con le più innovative suggestioni e corrispondenze tonali, una vera e propria sua cifra o firma, che si leggono e rimbalzano dalle sue famose e cinematograficamente felliniane colonne sonore.
Venendo ora più nello specifico della bella messa in scena al Carlo Felice di Genova, ieri 13 dicembre alla sua ‘prima’, la complessiva e notevolissima ‘gradevolezza’ dell’insieme non prescinde, sia dal lato registico che da quello della direzione musicale, da queste considerazioni, non può e non lo fa, al contrario le sottolinea, mai privando lo spettatore di un ‘di più’ di riflessione, che aggancia la sua ‘intimità’ anche nelle forme in cui questa si manifesta, e si adatta inevitabilmente, al suo essere sociale, con tutte le contraddizioni che comporta.
A partire dalla interessantissima regia di Damiano Michieletto, coadiuvato dalle semoventi scenografie di Paolo Fantin e dalle luci di Luciano Novelli, dominata dalla presenze delle porte, numerose e continuamente aperte e chiuse, ad indicare una cifra estetica propria di quel teatro farsesco (ricordiamo L’albergo del libero scambio di Feydeau) ma che anche nel grande teatro borghese di fine ottocento assumeva significati più ampi e profondi, tanto che Ibsen la interpretò come l’oggetto dietro il quale l’orecchio nascosto (del protagonista o della Società’) poteva non visto auscultare e elaborare i pensieri nascosti del salotto borghese, quasi una metafora del Teatro.
Insieme ad essa la bella concertazione e direzione del Maestro Giampaolo Bisanti sceglie di privilegiare la continuità melodica della musica di Nino Rota che è come un tappeto sui cui è disegnata l’intera narrazione, nelle sue plurime sfumature psicologiche ed esistenziali, comiche ma anche drammatiche, e su cui si compongono i singoli personaggi che così emergono sulla scena prima ancora di prendere voce. Una musica che, come scrive il Direttore, “in alcuni momenti sembra quasi danzare, ed è capace di evocare una miriade di emozioni”.
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Queste essendo, in senso lato, le premesse/promesse, l’amalgama finale efficacissimo è praticamente ‘inevitabile” e vede suo protagonista un cast di voci molto belle in tutti i suoi interpreti (segnaliamo il Fadinard del giovane tenore Marco Ciaponi, il burbero suocero Nonancourt del basso Nicola Ulivieri, il Beaupertuis di Paolo Bordogna e Elena del soprano di qualità Benedetta Torre), per di più, grazie proprio alla abilità registica del ‘cantante’ Damiano Michieletto, assecondate da una mimica e da una postura recitativa che non sempre si ha modo di apprezzare così pienamente, e in questo è giusto citare la Baronessa di Champigny del lucido contralto Sonia Ganassi
Gli stessi movimenti della scenografia, instabilmente sbilenca come la vita ‘vera’, sono, anche nell’utilizzo dei servi di scena ‘a vista’, così curati da apparire coreografici e coerenti, mentre ancora una volta il Coro del “Carlo Felice” diretto da Claudio Marino Moretti, ben valorizzato dalla partitura, ha modo di dimostrare tutta la sua bravura sia nel canto che nella presenza scenica. Un’ultima notazione per i costumi di Silvia Aymonino che sembrano anch’essi mescolare ironicamente epoche diverse, togliendoci ogni appiglio.
Una ‘prima’ di grande successo in una grande sala affollata, applaudita spesso a scena aperta e a cui il pubblico alla fine ha dedicato una lunga e meritata ovazione.
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IL CAPPELLO DI PAGLIA DI FIRENZE. Farsa musicale in quattro atti di Nino Rota, libretto proprio e di Ernesta Rinaldi dalla commedia Un chapeau de paille d’Italie di Eugène Labiche e Marc Michel. Nuova versione dell’allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova in collaborazione con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège. Personaggi e interpreti: Fadinard
Marco Ciaponi, Nonancourt Nicola Ulivieri, Beaupertuis/Emilio Paolo Bordogna, Lo zio Vezinet
Didier Pieri, Felice Gianluca Moro, Achille di Rosalba/Una guardia Blagoj Nacoski, Un caporale delle guardie Franco Rios Castro, Elena Benedetta Torre, Anaide Giulia Bolcato, La modista
Marika Colasanto, La Baronessa di Champigny Sonia Ganassi, Minardi Federico Mazzucco. Maestro concertatore e direttore Giampaolo Bisanti. Regia Damiano Michieletto. Scene Paolo Fantin. Costumi Silvia Aymonino. Luci Luciano Novelli. Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice Genova. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
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