A vent’anni dalla scomparsa il MIC di Faenza dedica all’artista Giacinto Cerone – di cui possiede diverse opere nella propria collezione – una grande mostra a cura del critico d’arte Marco Tonelli che “riscopre” l’artista a cui da almeno un decennio on veniva dedicata un’esposizione così ampia.
Si tratta di sculture di vari materiali, tra cui ceramiche, gessi, legni e plastiche di vari periodi, più una serie che sono esposti insieme ad oltre trenta disegni.
Giacinto Cerone (1957-2004) è stato uno dei più originali e liberi scultori italiani, lontano da raggruppamenti, scuole, movimenti, stili o mode del momento. L’irruenza del suo linguaggio si misura a partire dai differenti materiali impiegati sia nella produzione scultorea (legno, ceramica, plastica, metallo, marmo, gesso, pietra) che in quella disegnativa, per lo più indipendente dalla realizzazione delle opere plastiche, oltre che nell’uso di tecniche legate alla velocità e alla gestualità.
Il titolo “L’angelo necessario”, preso in prestito da una poesia di Wallace Stevens dal curatore che ha voluto identificare Giacinto Cerone in un angelo terreno, senza ali, una figura approssimata, difficile da definire, tuttavia profonda e spirituale allo stesso tempo per cui i temi della morte e le figure archetipiche dei santi diventano temi ricorrenti.
La sua era una scultura istintiva fatta di violenza sulla materia. Il fare arte era quasi un atto performativo, anche se avveniva senza la presenza del pubblico, e che aveva una valenza per il solo fatto di essere forma espressiva. Infatti Cerone stesso diceva che le sue diventano sculture “dopo”, non era interessato al significato, ma alla sostanza della forma.
Cerone è legato a Faenza che è stata una meta preferenziale fin dal 1993, quando cioè presso la bottega Gatti ha realizzato una serie di ceramiche smaltate utilizzando tecniche di lavoro forse poco ortodosse ma di forte espressività e sperimentando un grande varietà di colori e forme.
Il curatore ha scelto per l’esposizione il modo stesso di operare di Cerone: dividendo le opere per serie tematiche (come nelle rosse Malerbe, i Fiumi vietnamiti, i Gessi) o per singole opere dal carattere emblematico e per certi versi iconico e funerario (come Cenacolo e Ofelide). È in questa tensione che si gioca, nella diversità dei materiali, la struttura curatoriale della mostra “L’Angelo necessario”, quella sorta di “figura approssimativa”, “intravista, o vista un istante” descritta dal poeta statunitense Wallace Stevens e spesso delineata in modo inafferrabile nelle imperfette e liminali figure della statuaria interrotta di Cerone.
“Giacinto Cerone ha affrontato nella sua intera opera temi contrastanti – dichiara Marco Tonelli – e profondi della nostra cultura: la vita e la morte, la ferita e la bellezza, l’abbandono e la reazione, simboleggiati da figure rotte, ricomposte, totemiche e funerarie, elegiache e impulsive, rigide e vitali. Potremmo leggere la sua produzione come un sismografo di inquietudini private e ansie collettive, spesso rimosse per quieto vivere o soffocate da apparati normativi. Il suo è stato un atto totale che, come scriveva Carmelo Bene riferendosi ai geni creativi, era anche “giocare altrove”, soprattutto per chi voglia ancora oggi comprenderlo e condividerne le sollecitazioni esistenziali”.
Gruppi di disegni raccolti lungo il percorso, gigantografie dell’artista al lavoro con legno, ceramica, gesso e un video che raccoglie materiali documentari su di lui e interviste inedite, oltre a numerose opere mai esposte, completano un ambiente di richiami, contrasti, interruzioni e saldature che rendono l’idea del procedere stesso dell’artista, anarchico e istintivo, arcaico e sperimentale, lucido e razionale pur nella sua sintesi plastica emozionale, inconscia e carica di poesia, come quella da lui letta (tra cui Friedrich Hölderlin, Sandro Penna e Dino Campana).
Fino al 27 aprile. www.micfaenza.org