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Presso lo spazio espositivo Pallavicini22 Art Gallery in Viale Giorgio Pallavicini 22 a Ravenna è in corso la personale Un altro sempre di Alessandra Dragoni.
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Qual è il tuo primo ricordo significativo legato alla fotografia?
Il primo ricordo è in camera oscura. La comparsa dell’immagine, nel liquido. Molto coinvolgente.
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La tua formazione, come fotografa, si è sviluppata tra Amsterdam, Parigi e Ravenna, con Guido Guidi. Puoi nominare un’eredità peculiare di ciascuna di queste tre esperienze ancora oggi per te viva e pulsante?
Difficile riassumere in poche parole, come vorrei, un percorso piuttosto lungo. Ad Amsterdam, in quegli anni – metà ottanta- la fotografia era già molto diffusa e accessibile. Frequentavo una camera oscura dedicata agli studenti dove passavo ore a stampare le mie prime fotografie. Lavoravo come archivista in una agenzia che forniva materiale fotografico a quotidiani e riviste, oltre a studiare fotografia presso un corso serale organizzato dall’Università. Scoprivo la fotografia dei grandi maestri, ad esempio Robert Frank e Diane Arbus, che sono diventati per me punti di riferimento. In seguito, ho passato un anno a Parigi come stagista presso la Magnum. Ogni giorno incontravo importanti autori come Joseph Koudelka, Leonard Freed o Bruno Barbey, per i quali sbrigavo piccole commissioni, ne approfittavo per conoscerli e parlare del loro lavoro. Ho persino incontrato Henri Cartier Bresson, un paio di volte. A Milano ho iniziato a mostrare le mie fotografie e a ricevere le prime committenze. Per diversi anni ho fotografato, con soddisfazione, per riviste illustrate – i cosiddetti femminili: Amica, Marie Claire – occupandomi soprattutto di redazionali. La fotografia era diventata un lavoro. Iniziavo però a maturare il desiderio di utilizzare un mio metodo, uno sguardo che non sempre incontrava le esigenze del committente. Guardavo con interesse le riviste inglesi che pubblicavano i lavori di Juergen Teller, Wolfgang Tillmans, Corinne Day, i quali fotografavano la vita – e la moda – in maniera disincantata e “realistica”, modalità che in Italia non venivano apprezzate. Tornata a Ravenna, per ragioni non lavorative, ero disorientata. Qualcuno mi consigliò il corso di Guido Guidi all’Accademia di Belle Arti. Fu una rivelazione e anche la nascita di una bella amicizia; con Guido ho imparato un nuovo modo di pensare la fotografia, le esperienze precedenti erano assimilate e il mio percorso è diventato più stabile, più legato alla ricerca. Il mio è stato un percorso lento, perché ho sempre avvertito l’arte, e la possibilità di comunicare, come una responsabilità, oltre che un piacere ed un’esigenza.
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E un elemento che le accomuna?
L’incontro con persone che hanno creduto in me.
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A proposito di formazione: parte della tua attività è dedicata ai laboratori con e per ragazze e ragazzi. Che tipo di sguardo e di tecnica aiuti ad affinare? E come lo fai, in concreto?
Con i ragazzi provo a stimolare la consapevolezza del mezzo e la scoperta del linguaggio fotografico, spesso usando la fotocamera del cellulare. Iniziamo guardando fotografie di autori diversi, selezionati secondo l’argomento che andremo a trattare: nella maggior parte dei casi si tratta del luogo in cui ci troviamo, osservato attraverso la fotografia, strumento di conoscenza e di indagine. A volte chiedo agli studenti di fotografare i loro familiari o gli amici; oppure la scuola che frequentano, o il pezzetto di strada che percorrono per raggiungerla. Cose molto semplici e di tutti i giorni, utili a porre interrogativi, ad esempio se quello che crediamo di conoscere non porti con sé enigmi che vengono rivelati dalla fotografia.
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La mostra in corso a Ravenna presenta una quarantina di scatti, selezionati da una produzione molto abbondante. Quali principi hanno regolato la scelta?
La scelta è stata fatta insieme alla curatrice, dopo tanti incontri e conversazioni. Abbiamo guardato molti lavori d’archivio e deciso di concentrarci sulle fotografie realizzate in due luoghi diversi ma a me molto familiari: Ravenna e Punta Marina. Luogo e arco temporale hanno guidato la scelta, suggerendo una metafora involontaria della fotografia, nel senso del tempo e dello spazio che ogni fotografia delimita.
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Più in generale: cosa caratterizza, per te, una bella fotografia?
La capacità di essere di semplice lettura e custodire un mistero. Sembrare facile.
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Nel testo introduttivo alla rubrica Le cose come sono, che hai tenuto sulle pagine della nostra rivista da gennaio 2022 a gennaio 2023, citavi Luigi Ghirri. Uno scatto in mostra a Ravenna ricorda in maniera lampante una sua celebre fotografia balneare. In cosa il tuo lavoro, oggi, è vicino alla pratica di Ghirri e in cosa ne è distante?
Ho conosciuto il lavoro di Ghirri tardi, avendo passato molti anni all’estero (dove fino a 30 anni fa non era ancora molto conosciuto), e non posso dire di avere cose in comune con lui, pur amandone il lavoro e condividendone pensieri e riflessioni. Da questo punto di vista sento di essere stata molto più influenzata dalla fotografia americana e inglese, ma anche dal cinema.
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Le immagini esposte a Pallavicini22 Art Gallery pongono al centro la questione dello sguardo: dei soggetti ritratti, tuo su ciò che fotografi, nostro nella relazione estetica (dunque, etimologicamente e sensorialmente, conoscitiva) con quelle forme. Vien da pensare alla rivoluzione cardine delle arti visive contemporanee, almeno dai ready-made duchampiani in poi, per cui l’artista non è più quello che in primis possiede una téchne che il non-artista non ha, ma è colui/colei che vede più cose. Meglio: che scorge nelle cose mondane epifanie ad altri negate. «La poesia è un dono fatto agli attenti» scriveva Paul Celan. Come alleni, nella quotidianità, la tua attenzione? Cosa la nutre?
Esercitare lo sguardo come abitudine. Insistere, riprovare. Esserci e nello stesso tempo allontanarsi da sé. Quello che fotografo è un “fuori” che spesso è già dentro di me e che si manifesta attraverso la fotografia, ricomponendo segni sparsi che abitano la mia memoria visiva. Qualcuno ha detto “Non fotografo quello che c’è ma quello che sono”: non interpreto questo assunto in maniera autoreferenziale, ma è vero che ciò che vedo (e scelgo di fotografare) è la conseguenza di ciò che so, e sono.
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Nel testo critico della curatrice Veronica Lanconelli, a catalogo, si ragiona sulla difficoltà -finanche sull’assurdità- del dover spiegare a parole il proprio lavoro fotografico. È altresì vero che il discorso sull’arte può aiutare a incontrare le opere, soprattutto quando non è la perizia tecnica il primo e più evidente elemento costitutivo di ciò che è dato a vedere. Dunque ti chiedo, per concludere e al contempo allargare la nostra conversazione: tra documentazione del reale e costruzione dell’immaginario, da sempre le principali polarità del pensiero sul fotografico, dove si colloca, oggi, il tuo lavoro?
Mi sento più vicina alla documentazione del reale, consapevole del fatto che reale sia un termine ambiguo e che, declinato in linguaggio fotografico, diventi soggettivo. Per me fotografare significa interagire con il presente: spesso il senso del mio fare emerge a lavoro concluso. Non pianifico molto, sono piuttosto attratta da luoghi o situazioni che stimolano una curiosità visiva. Ci sono autori che lavorano in maniera più costruita che mi interessano, ma in generale prediligo porre l’attenzione sull’imprevisto, pur avendo, in passato, sperimentato anche altri metodi. La fotografia, a differenza della pittura, alla quale viene ancora paragonata (sembra un quadro!) possiede per sua natura le caratteristiche adatte a riprodurre la realtà “così com’è”. Mi piace adoperarmi in questo senso, cercando di onorare il mezzo e le sue peculiarità.
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La mostra, visitabile fino a domenica 12 gennaio 2025, è aperta al pubblico dal martedì al sabato feriali dalle 17 alle 19 o anche su appuntamento all’indirizzo mail: pallavicini22.ravenna@gmail.com.
Finissage domenica 12 gennaio, dalle 17 alle 19.
Ingresso libero.
La mostra è inserita nel progetto di CARP APS Con altri occhi. Appunti di fotografia contemporanea a cura di Luca Piovaccari e Roberto Pagnani.
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