
«Scappa via coi suoi pensieri, c’era scritto una volta sulla sua pagella. Ora, trent’anni dopo, le sembra di aver fatto proprio questo. È scappata, e i suoi pensieri sono venuti via con lei, al suo seguito, sempre vicini».
Ad essersi avventurata in una fuga tanto vana quanto necessaria è Mara, la protagonista di Tides (Maree nell’edizione italiana pubblicata da Elliot Editore nel 2024), il romanzo d’esordio della scrittrice canadese Sara Freeman, premiato con il Gold Medalist agli Independent Publisher Awards 2023 e con il premio The Bridge 2022.
Attraverso un’originale prosa lirica, Maree si sviluppa per frammenti, che intrecciano il racconto degli eventi con l’interiorità complessa di Mara, personaggio con cui è facile immedesimarsi ma anche indisporsi. La narrazione è in terza persona, a volte alternata con la seconda, come a voler creare un intimo e diretto dialogo fra il lettore e l’animo tormentato della protagonista, restituendone una sorta di universalità. Freeman ritrae così una storia di smarrimento e dolore, che evolve in una progressiva presa di coscienza di un urgente bisogno di trasformazione e liberazione: «Da piccola le piacevano le storie di trasformazione, redenzione, reinvenzione alla Pigmalione. In quelle storie, una volta forgiato il nuovo sé, l’altro sé viene distrutto, non rimane accanto tutto il tempo, con la minaccia di riapparire in ogni gesto, ogni sogno, ogni lapsus».
Uno stile che cattura il flusso della mente
L’originalità del romanzo risiede nello stile e nella tecnica narrativa, sintonizzati con le “maree” emotive della protagonista. La prosa lirica di Freeman accompagna infatti il lettore nei pensieri di Mara che, proprio come le onde del mare, vanno e vengono, fluiscono rapidi per poi infrangersi, portandosi dietro detriti di ricordi, emozioni, riflessioni. Pur risultando sempre fluida grazie alla carica poetica della scrittura, la narrazione procede in modo frammentario proprio come la struttura del romanzo, restituendo il disordine interiore della protagonista. Anche le ambientazioni sono il riflesso della sua condizione e del suo animo: luoghi grigi e anonimi, pub semi-deserti, spiagge desolate, ricalcano la solitudine di Mara, il suo auto-isolamento ed esilio nella località di mare dove sceglie di fermarsi. Le descrizioni sono vivide ma essenziali, capaci di donare delle immagini dense di significato: «Hai la pelle così sottile, diceva Lucien. Aveva ragione: il tuo io è cucito così vicino alla pelle, che se scuci un solo punto disfi tutto quanto».
«Sto andando via. Andrà tutto bene!»
Ciò che muove Mara a lasciarsi la sua intera vita alle spalle non è immediatamente chiaro e non lo sarà fino alla fine. Solo a poco a poco, per piccoli tasselli e flash, si scopre che il suo vagabondare senza un soldo e senza effetti personali, scaturisce dalla sofferenza per le complicate dinamiche famigliari con la madre e il fratello, dal peso di una relazione trascinata col marito e dal dolore per un lutto, sembra per un figlio mai nato. Freeman pare suggerire che Mara non stia fuggendo tanto dalla vita, quanto da un’identità che sente non appartenerle e di cui sente l’urgente bisogno di liberarsi, come da un abito troppo stretto che le è stato cucito addosso dalle mani di qualcun altro: «Spesso, a scuola, dicevano: Mara è molto brava. Ma non era per incoraggiarla. […] Fin d’allora l’aveva capito: potevi essere solo quello che già eri».
Nel corso della narrazione emerge il senso di oppressione della protagonista causato dal giogo delle aspettative altrui, dal peso di un passato che l’ha definita, dalla rabbia per averlo permesso. La sua fuga, senza spiegazioni e senza scopo se non quello di andarsene, si rivela allora un atto di ribellione nel disperato tentativo di ritrovarsi. Il punto di partenza è inevitabilmente perdersi, dimenticarsi di colei che è stata fino a quel momento, annullare la propria identità: «È proprio quello che voleva, deve tenerlo a mente: scivolare in un punto cieco, scappare via dalla sua vita».

Ricominciare dalla carne
Il grado zero per ricominciare sembra essere per Mara la propria carne: si riscoprirà viva attraverso le sensazioni e i bisogni basilari del corpo, dal piacere sessuale alla fame estrema, fino al dolore fisico per il troppo freddo e una conseguente brutta influenza. Da questa dimensione carnale e animalesca – naturale, istintuale e per certi versi ingenua e fanciullesca – Mara riprende piano piano possesso e coscienza della propria persona: l’arco narrativo va infatti dall’abbandono del passato all’annullamento dell’Io, per arrivare poi a una graduale ricostruzione del Sé.
Questo processo di ripresa passa attraverso l’incontro con le persone che entrano a far parte della nuova vita di Mara, fra tutti il proprietario del negozio di vini e formaggi in cui inizia a lavorare, che amerà di un amore adolescenziale e famelico, sebbene lui non sia del tutto disponibile emotivamente: ha una famiglia e un passato che ritornano di continuo. Proprio come Mara. Nulla è stabile, dunque, ma si tratta di un lungo momento di transito “in disequilibrio”, funzionale a Mara per la sua liberazione e trasformazione, che però non sembrano mai avvenire appieno: i fantasmi del passato tornano sempre, non si fugge.
L’impossibilità della fuga da sé stessi
Maree si rivela un romanzo complesso da leggere ma semplice da comprendere: basta essere disposti a mettere ogni tanto da parte il pensiero logico-razionale per lasciarsi guidare dalla leggerezza visionaria della poesia, capace di comunicare su un altro livello, irrazionale, sensoriale, “di pancia”. Un modo per incontrare l’interiorità di una donna che non è altro che un individuo come tanti, alle prese con una crisi e con la conseguente gestione dei propri moti emotivi e con situazioni irrisolte. La storia narrata da Freeman è una cruda e al tempo stesso delicata riflessione sulla costruzione dell’Io, su quanto il passato e il contesto in cui si vive e si cresce abbiano il potere di plasmare e influenzare la nostra persona, anche a distanza di tempo e di spazio.