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Della Traviata, e con essa e attraverso di essa della cortigiana Marie Duplessis diventata Margherita Gautier nella penna di Dumas fis, tutti sanno e tutto praticamente si sa e così ad ogni sua (loro) apparizione in scena è quasi un continuo “darsi di gomito”, ad ogni passaggio narrativo e musicale divenuto ‘immortale’ che trascina circostanze e ricordi che costantemente tracimano dal palcoscenico al mondo che vi si rappresenta.
Eppure, io credo, ha ben ragione Enrico Girardi quando nella presentazione dell’opera e del libretto ci suggerisce che questa è un’Opera ancora e sempre da riscoprire, poiché al di là di quella apparenza nota, forse proprio perché è come tutto il grande teatro apparenza, si cela un profondo su cui inconsapevolmente (ma magari ‘volontariamente’ inconsci) scivoliamo rifugiandoci nel balsamo che a quell’odore di morte, a quel dolore acuto, l’irraggiungibile trama musicale di Giuseppe Verdi cerca di dare un senso appunto ‘svelandocelo’.
È, infatti, La traviata una delle opere che guidano il transito del Cigno di Busseto dal Romanticismo storico dei grandi personaggi e dei grandi eventi ad un Romanticismo dei sentimenti preludio di quel realismo o naturalismo che però Verdi mai abbracciò pienamente, legato come era alla romantica sincerità interiore e all’umanità che, nel tragico transito sulle scene della vita, sono ciò che può far luce sul significato, anche nella fede religiosa, delle sofferenze che quello stesso transito sembra portare ineluttabilmente con sé.
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Si sa, Verdi parlava in musica ma in questo caso non volle prescindere ‘drammaturgicamente’ dalla narrazione e dalla parola che l’accompagna così che potessero portare insieme quel di più di forza simbolica (ogni nome e ogni parola qui la custodisce per svelarla) che aiutasse loro e la sua musica a mettersi in comunicazione non solo con l’orecchio della mente ma direttamente con il ‘cuore’ dello spettatore.
E a proposito del libretto e del librettista, l’umile ma non troppo ed onnipresente Francesco Maria Piave, scrisse una volta Edoardo Sanguineti, che di musica molto conosceva: “Si possono travolgere con patente consenso, le notazioni deboli di Francesco Maria Piave, non quelle forti di Giuseppe Verdi, e non già perché il Piave sia debole, anche se il Piave, per certo, è poi relativamente debole, dinanzi al forte Verdi, ma perché disponeva e accettava di disporre, di notazioni deboli, appunto, in primo luogo e in ultima istanza”.
Una debolezza consapevole dunque, quella di un librettista spesso ‘perseguitato’ dal compositore, che però diventa, in questa occasione in particolare, una sua forza, per la genialità con cui spesso sa, nell’adattarla, manipolare la parola letteraria, immergendola nella musica di Verdi e facendola diventare quasi un’esca per pescare le più nascoste inflessioni che in quella musica proliferano, in un reciproco gioco di risonanze che danno straordinaria forza significante e significativa all’una e all’altra.
Parliamo di Piave andando a parare sulla regia di Giorgio Gallione in quanto essa regia ed esso regista appaiono consapevoli della necessità che il senso profondo di questa narrazione scenica non vada perduto nella disattenzione del ‘tanto sappiamo ogni cosa’.
Così Gallione sceglie uno scenario quasi simbolista, in cui dominano, anche nel disegno luci di Luciano Novelli, i colori e le loro sfumature a confluire inevitabilmente nel rosso del sangue che insieme rappresenta la vita dell’amore (anche nelle sue declinazioni più acerbamente materiche) e la morte della malattia (non solo quella fisica della Tisi ma anche quella morale della subordinazione e dell’oppressione) che precipitano entrambi sul femminile di cui Violetta diventa, anche suo malgrado, simbolo di improvvisa e lacerante ‘indisponibilità’.
Lo assecondano le belle scenografie di Guido Fiorato, che firma anche i costumi e di cui è piaciuto in particolare il grande specchio sospeso che quasi sembra ricomporre in unità le parti in cui come in caleidoscopio si rifrangono i diversi personaggi/caratteri.
Al riguardo due appaiono gli elementi discriminanti della messa in scena, il primo è l’ampia presenza (con palesato disappunto di una piccola parte del pubblico) di momenti di balletto che appunto sembrano avere lo scopo di veicolare quel mare di sentimenti che si muovono sotto la superficie pur trovando sfogo talora tragico nelle esistenze dei protagonisti.
In particolare nella famosa scena delle “Zingarelle” e poi del “Torero”, in cui non a caso prevalgono nella musica attualissima ritmicità quasi rimbombanti, che ‘esprimono’ non solo il rimando anticipatorio alla morte prossima ma anche quelle sue connotazioni per così dire sessuali, che la camelia bianca e la camelia rossa nascondevano nel romanzo di Dumas.
La seconda è l’interessante scelta registica di far restare praticamente sempre in scena, anche quando non ha parte in commedia, l’incombente figura di un Giorgio Germont evidenza quasi icastica di un Patriarcato Borghese opprimente nel controllare il ‘corpo’ della donna, la sua mente ed il suo cuore in ogni loro manifestazione, e insieme ipocrita nelle lacrime che sgorgano quando la morte di quella stessa donna lo toglie da ogni ‘impaccio’.
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Del resto è noto che all’epoca del romanzo, della pièce e dell’Opera nell’alta borghesia era d’uso avere, oltre alla casa della Famiglia ufficiale, anche una casa per l’amante a riprova palese della scissione, prima morale e poi sociale, tra moglie/madre e puttana (così la definì con straordinaria e ribelle sincerità lo stesso Verdi) che si chiamasse Maria, Margherita o anche Violetta.
Di tutto questo l’ottima direzione musicale del Maestro Renato Palumbo sembra essere consapevole laddove ricuce le ariose e indimenticabili melodie che costellano l’intera partitura ad una trama robusta di tonalità ‘scure’ incentrate come noto sui ‘temi’ musicali contrapposti ma sempre ‘armonici’ di amore e morte che la attraversano, in una continuità che non ostacola i singoli e singolari approfondimenti psicologici dei personaggi, tipici del Verdi maturo, ma bensi dà loro una connotazione universalmente ‘umana’.
Infine il cast di livello assoluto della Prima, in cui si segnalano la voce matura, ricca di sfumature, delicata nei toni sussurrati, giustamente robusta negli acuti e in grado di fronteggiare caballette e ostacoli vari che il compositore usava apparecchiare ai suoi cantanti, nonché la grande forza mimica e recitativa della Violetta, un po’ Marilyn Monroe dalla altrettanto tragica fine, del giovane soprano Carolina Lopez Moreno, la buona prestazione dell’Alfredo di Francesco Meli, tecnicamente all’altezza, e ultimo ma non ultimo il citato Giorgio Germont di un efficace, in voce e presenza scenica, controscenica e anche, come detto, ‘silenziosa’, baritono Roberto Frontali. Buone comunque anche le prove dei personaggi che la drammaturgia di Verdi/Piave vuole nell’economia della narrazione inevitabilmente secondari.
Dell’ottimo corpo di ballo abbiamo detto, non può mancare infine la consueta segnalazione della positiva prova del Coro del Teatro Carlo Felice, chiamato qui a numerosi, affollati e non sempre ‘agevoli’ interventi scenici.
La traviata è evento che sempre richiama il gran pubblico e anche questo allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova non è stato da meno. Il grande teatro alla prima del 12 gennaio era pieno e molti erano i giovani e i giovanissimi a conferma dell’encomiabile politica a favore delle nuove generazioni portata avanti dal Sovrintendente e dal Direttore Artistico. Il pubblico ha sottolineato lo spettacolo con molti applausi a scena aperta ed una lunga ovazione (con le eccezioni di cui abbiamo dovuto dar conto) alla fine.
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La traviata. Melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi, libretto di Francesco Maria Piave dal romanzo La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio. Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova. Personaggi e interpreti: Violetta Valery Carolina López Moreno, Flora Bervoix Carlotta Vichi, Annina Chiara Polese, Alfredo Germont Francesco Meli, Giorgio Germont Roberto Frontali, Gastone Roberto Covatta, Barone Douphol Claudio Ottino, Marchese d’Obigny Andrea Porta, Dottor Grenvil Francesco Milanese, Domestico di Flora Loris Purpura, Giuseppe Giuliano Petouchoff, Commissionario Filippo Balestra. Maestro concertatore e direttore Renato Palumbo. Regia Giorgio Gallione. Scene e costumi Guido Fiorato. Coreografie DEOS, Luci Luciano Novelli. Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice Genova. Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Prossimi appuntamenti, anche con altro cast, 14, 15, 16, 17, 18, 19 gennaio.
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