Quel mostro di Mary Shelley nel Frankenstein di Yvonne Capece

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Molti, ingenuamente, pensano che Frankenstein sia il nome del mostro.

Qualcuno sa che Frankenstein, invece, è il nome dello scienziato e che il mostro non ha nome.

Secondo alcuni, inoltre, il mostro del romanzo di Mary Shelley altri non è che Mary Shelley stessa, ed ella è anche il dottor Frankenstein.

Ma andiamo con ordine.

Teatro Testori, 21 gennaio.

In scena questa sera (e non per la prima volta) Frankenstein del Centro di Produzione Teatrale Elsinor. In coda, alla biglietteria, molti adolescenti.

Dopotutto il romanzo, il cui titolo completo è Frankenstein o il moderno Prometeo, dell’autrice Mary Shelley, il cui nome completo è Mary Wollstonecraft Godwin Shelley, si studia a scuola.

Quello che, il più delle volte, non si studia e non si conosce è la biografia dell’autrice.

È proprio questo il centro dello spettacolo, che non ripercorre la storia del romanzo, ma le vicende personali di Mary Shelley, in particolare il suo rapporto con la madre e con l’idea di maternità.

Mary Wollstonecraft, filosofa e scrittrice, considerata la fondatrice del femminismo radicale, madre della più famosa Mary Shelley, morì nel dare alla luce la figlia.

A sua volta, al momento di diventare madre, la stessa Mary Shelley sperimentò più volte parti travagliati, perdendo tre dei suoi quattro figli.

Questa vicenda personale è la chiave di lettura dello spettacolo, che scava e ricerca nel romanzo le proiezioni della storia dell’autrice, costruendo un triplo rapporto genitore-figlio, tra Mary Wollstonecraft e Mary Shelley, tra l’autrice e l’opera e tra il dottor Frankenstein e la sua creatura.

Come sottolinea il critico letterario Harold Bloom, nel romanzo di Frankenstein l’impronta autobiografica dell’autrice è fortemente presente.

Nel singolare rapporto tra lo scienziato e il mostro, dice Bloom, si delinea una critica a tre illustri figure, ciascuna delle quali ha contribuito a dare il nome all’autrice: la madre Mary Wollstonecraft, il padre, il filosofo radicale, William Godwin e il marito, il poeta Percy Bysshe Shelley. Tre personaggi che hanno, in un certo senso, creato Mary Wollstonecraft Godwin Shelley e con i quali lei si trova in un rapporto di amore e conflitto, avendo sperimentato il lutto e l’abbandono, esattamente al pari della Creatura del suo romanzo.

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Nello spettacolo, padre e marito incarnano il conflitto di Mary con un mondo intellettuale e una società che non lascia spazio per emergere alle donne.

Diverso è il discorso del rapporto con la madre.

Questo personaggio è più affine a Mary Shelley, essendo, come lei, donna, madre e scrittrice di successo. Le due sentono di avere qualcosa in comune ed è proprio la madre a dare a Mary Shelley il grande suggerimento: fai di te stessa l’eroina della tua storia.

Si delinea dal dialogo tra le due, fatto di botta e risposta e di monologhi alternati, un racconto intimo che scava nel profondo dei ricordi dell’autrice Mary Shelley, e si sofferma più sulle sue emozioni, i dubbi, i pensieri, che sui fatti della sua biografia.

In che modo la regista e autrice, Yvonne Capece, ci guida in questo labirinto di emozioni, ricordi e riferimenti?

Coerenti con lo stile che le contraddistinguono sin dagli esordi con la compagnia Sblocco5, Yvonne Capece e Micol Vighi, che cura scenografie e costumi, utilizzano strumenti e tecnologie moderne e multimediali per inserire la narrazione in un meccanismo visivo precisissimo ed impeccabile. tecnicamente ed esteticamente.

Tale meccanismo si fonda prevalentemente su due tecnologie: proiezione di video e audio immersivo binaurale.

Attraverso la proiezione viene costruito il rapporto tra Mary Shelley, interpretata dal vivo da Maria Laura Palmeri, e la madre, Mary Wollstonecraft, interpretata in video da Giuditta Mingucci.

Queste video proiezioni, realizzate con estrema cura da Cristina Spelti, ritraggono ambienti luminosi, simmetrici, in scala 1:1, che spesso nascondono quadri nel quadro utilizzando porte che si aprono e si chiudono, e ospitano i personaggi di Mary Wollstonecraft e della Creatura del romanzo, in una versione femminile a cui dà corpo Lara Di Bello.

Talvolta alla proiezione sul grande pannello che fa da fondale si sovrappone una seconda proiezione, sulle pagine bianche di un libro, tenuto in mano dalla protagonista. Un elemento simbolico e metalinguistico che rimanda ulteriormente al rapporto tra la biografia di Mary Shelley e il contenuto del suo romanzo.

L’audio binaurale è invece utilizzato per costruire un ambiente sonoro immersivo, in cui lo spettatore, che indossa un paio di cuffie, viene a trovarsi, con l’illusione uditiva di tridimensionalità data dalla stereofonia.

Per chi non lo sapesse la tecnica che permette di ottenere questo tipo di effetto è ottenuta tramite microfoni particolari, in grado di cogliere i suoni con lo stesso assorbimento sonoro e la stessa percezione della distanza, tipici dell’orecchio umano.

Inizialmente, nello spettacolo, viene proprio utilizzato uno di questi microfoni, a forma di testa umana. L’effetto è quello di sentire nell’orecchio i sussurri dell’attrice come se fosse proprio di fianco a chi ascolta.

Questa costruzione multimediale, con questa testa microfonica che si presenta da subito agli spettatori, ricorda essa stessa una creatura frankensteiniana, un monstrum nella sua accezione etimologica, cioè qualcosa di prodigioso che si offre allo spettatore colpendone i sensi.

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L’anima di questo mostro è un’anima femminile, femminista, giustiziera, che vuole rivalutare a posteriori un’autrice che per lungo tempo ha subito le pressioni di un mondo maschiocentrico (Frankenstein fu pubblicato anonimo).

Dunque, in questo Frankenstein, mostro è lo spettacolo, creatura ibrida di linguaggi e mostro è Mary Wollstonecraft Godwin Shelley, donna dai molti nomi, creatura del suo tempo, psiche frammentata dal dolore che si ricompone da sola, in veste di creatrice-scienziata, nella scrittura autobiografica.

Quel mostro di Mary Shelley, appunto.

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