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Si sa che Napoli è un teatro a cielo aperto e che la città ne è piena, un brulicare di titoli e cartelloni, di volti e programmi. Ogni strada che prendi te ne trovi uno davanti, da quelli dello Stabile, il Mercadante e il San Ferdinando, passando per il Bellini e il Sannazaro, e poi scivolando per le vie ci imbattiamo nel maestoso San Carlo, nei Quartieri fioriscono il Nuovo e la Sala Assoli, e ancora il Trianon, il Diana, l’Augusteo, il Politeama, l’Immacolata, quello dei Lazzari Felici, lo ZTN, il Bracco e di tanti altri ci stiamo dimenticando.
Ma il fascino, la storia che si respira all’interno del Teatro Instabile Napoli è unico, avvolto da un’atmosfera sospesa nel tempo, tra l’antico e l’oggi. Lo definiscono il teatro modernamente arcaico e non c’è appellativo più azzeccato. Anzi l’allure si percepisce fin da fuori, da Via dei Tribunali imboccando l’arco dove il volto scanzonato di Pulcinella, consunto dalle mani e dai polpastrelli dei turisti a caccia di fortuna (la ciorta napoletana), con il suo sorriso sardonico quasi ti invita a entrare nel Vico del Fico al Purgatorio. E il T.I.N. è un piccolo spazio vivace, colmo di magia, pieno di entusiasmo, seguitissimo in città.
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Al centro una sorta di piazzetta dove si svolge l’azione, attorno il pubblico in completa simbiosi con gli attori in un unicum, circondati da archi bianchi, drappi rossi, pietre calde, mattoni (che ci hanno fatto tornare alla mente il Teatro Basilica di Roma) in un impasto che sa di esoterico, di cisterna medievale, di messe carbonare segrete. Tra queste mura cariche di seduzione, l’attore e regista Gianni Sallustro, in due anni di direzione artistica e gestione, ha costruito, e rimesso a nuovo, la sua creatura che emana voglia, elettricità, novità, freschezza con un cartellone ampio, complesso, composito, articolato con una trentina di titoli in sei mesi, da novembre a maggio, tra produzioni interne (a cura della Talentum) e ospitalità, diventando un punto di riferimento per la città, a cavallo tra tradizione e linguaggi innovativi. Ed eccoci a questo Otello shakespeariano che, pur con una ventina di attori in scena, diventa intimo, vissuto ad un metro dal pathos toccante della scena che, come un soffietto, pare ampliarsi e zoomare, attrarre e allontanare, emozionare. In questo adattamento e regia, agile e mai statica, di Gianmarco Cesario, gli abiti sono contemporanei, potremmo dire vagamente nazisti, anche se la definizione è leggermente forzata visto che mancano gli stendardi e i simboli, le piastrine al collo ricordano il Vietnam, mentre i cappotti, le pistole, gli stivali richiamano l’immaginario bellico d’inizio Novecento. Attorno ad un nucleo di attori solidi ed esperti, si muovono anche i giovani dell’Accademia Vesuviana per fargli assaggiare la scena insieme ai professionisti. Da questa minima distanza si percepiscono i dettagli, le mosse, il respiro, le pause degli attori e tutto quell’intangibile, quel quid che si muove tra le righe, quelle sospensioni tra le battute, quei silenzi carichi di significato che donano forza a una messinscena.
Lo spazio è piccolo ma viene esaltato dagli attori e usato nella sua totalità comprese le balconate che danno movimento e brio all’azione, il pubblico così vicino è una risorsa e un gancio per accendere testo e interpretazione ma può diventare anche un limite se la forza e la potenza non vengono gestite e dosate cosa che qui non accade, occhi negli occhi tra platea e interprete, in un continuo confronto non semplice, ad esaltare la storia del Moro raccontata dal Bardo. Iago geloso del potere di Otello, perché sospetta che abbia avuto una tresca con la moglie e insoddisfatto di non essere stato nominato luogotenente, ordisce il suo piano diabolico. Otello è attaccato perché considerato un mostro, un diverso, lo straniero. Il subdolo consigliere prima tesse la sua tela instillando dubbi su Brabantio, padre di Desdemona, poi attizzando il fuoco sotto il braciere delle frustrazioni di Roderigo e di Cassio, infine accende la miccia alla gelosia di Otello. La giovane è pura e innocente ed è follemente innamorata di Otello (che qui non è classicamente e banalmente con il volto dipinto di nero) sulla cui faccia campeggia e troneggia una grande voglia patologica come una malattia purulenta, un carcinoma bruciato e incrostato, quasi un cancro infetto o un tumore putrido (ricordando il pirandelliano L’uomo dal fiore in bocca). Una bella scelta e trovata scenica questa grande C che sembra crescere sul lato destro del volto del generale quasi a mangiarselo come un Pac Man, quasi come il tatuaggio di Tyson, un elemento alieno che lo trasfigura, lo distorce, lo amplifica come un virus che lo sta aggredendo lentamente dall’interno, come una tenia, come un batterio che lo ha colpito e lo sta trasformando in uno zombie dalla carne consunta e morsa.
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Tutti i personaggi sono plausibili e credibili in questa tragedia dove i colori sono banditi, con i costumi (a cura di Costantino Lombardo) immersi in un grigio plumbeo e in un nero luttuoso pece: Mario Brancaccio – Iago ha forza interpretativa e convinzione, Gianni Sallustro – Otello ha qualità attoriale e presenza scenica imponente, Peppe Carosella – Brabantio ha esperienza e storia. Ma anche Vincenza Granato – Desdemona (con il foulard in testa prende le sembianze iconiche di una Marilyn, di una Jackie Kennedy, di una Audrey Hepburn o di una Callas), così giovane e così ispirata, per un manipolo di belle voci sincere e di interpretazioni viscerali che rianima e riscalda la platea. Le ombre che si formano all’interno del teatro diventano altri veri e propri personaggi che si sommano a quelli reali e fanno drammaturgia (le luci sono di Marcello Radano). Un dramma maschile e mascolino che pone al centro la donna come preda, attorno a lei uomini maschilisti e sessisti, vampiri della sua felicità. La donna trattata come un oggetto anche da parte di chi dice di amarla: Dopo l’acquisto di un bene ne consegue il suo godimento, dice Otello alla moglie ingenua. L’innesco della ballata di Modugno Cosa sono le nuvole mette i brividi (le musiche sono di Pasquale Ruocco). Gli uomini sono solo stomaco e noi donne siamo solo cibo, spiega affranta l’amica alla giovane sposa con drammatica verità e attualità di cronaca. Sul finale sono commoventi le scarpe rosse, simbolo della violenza contro le donne e dei femminicidi, monito ad un fenomeno che non vuole tragicamente fermarsi.
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