.
Non saremo certo noi con queste scarne righe a voler ridimensionare né mettere minimamente in dubbio o in discussione la carriera di un gigante della scena come Carlo Cecchi, figura di spicco del nostro teatro per il quale nutriamo un profondo rispetto. Non è questo l’intento né la volontà di questo articolo. Però non possiamo, e lo diciamo a colleghi e pubblico, urlare al capolavoro anche quando non siamo di fronte ad un caso simile, non possiamo parlare del passato glorioso di un interprete, chiunque esso sia, quando siamo davanti ad una prova con molte pecche come in questa versione de La leggenda del santo bevitore (prod. Teatro Franco Parenti, visto al Teatro di Rifredi di Firenze, all’interno della stagione del Teatro Nazionale della Pergola). Non faremo un buon servizio né al teatro né alla nostra onestà intellettuale né alla nostra coerenza. Il teatro non vive di ricordi, ogni volta, ogni sera, ogni replica, è una prova unica. Nel luogo principe del qui ed ora conta soltanto il presente, non il già fatto, non ieri. Niente a che vedere, ad esempio, con due mostri del palcoscenico come Franco Branciaroli e soprattutto Umberto Orsini, arrivato con classe e lucidità ai novant’anni, visti e applauditi recentemente ne I ragazzi irresistibili e che irresistibili, attorialmente, lo sono stati davvero con ironia, presenza, carisma, leggerezza, freschezza.
Cecchi non è stato aiutato da una regia statica (di André Ruth Shammah) tutta concentrata ad un bancone di un bar, che richiamava le classiche tinte hopperiane, con due inspiegabili, e superflui e inefficaci ai fini del racconto, figure che gli si aggiravano a fianco e gli aleggiavano intorno: il barista muto (al sapore di Shining) e la ragazza narratrice sotto al boccascena che introduceva kantorianamente alcuni quadri leggendo direttamente stralci dal libro di Joseph Roth. Rispettiamo assolutamente gli ottantasei anni di Cecchi ma le battute scorrevano inceppate e defluivano faticosamente, ora rallentate adesso velocizzate non permettendo, come anche il volume della voce, un perfetto ascolto e una degna comprensione del monologo, a tratti ciancicato, morsicato e biascicato, altre lanciato sulla scena in un susseguirsi di battute dette senza intenzione né interpretazione quando alcune frasi, momenti, sospensioni e parole sarebbero dovute essere sottolineate, soppesate, bilanciate, digerite. Un (magnifico) lapsus teatrale è stato quando al posto di Woitech, un personaggio evocato dal protagonista, Cecchi ha detto Woyzeck creando uno stupendo cortocircuito tanto involontario quanto deliziosamente illuminante: un lieve errore salvifico.
Quindici anni fa la pièce era andata in scena con l’attore Piero Mazzarella. Dal libro di Roth il regista Ermanno Olmi ne trasse un’omonima pellicola che nell’88 vinse il Leone d’Oro a Venezia e il David di Donatello e il Nastro d’Argento: in quella occasione, nei panni del ruolo principale di Andreas, c’era l’attore olandese Rutger Hauer che al tempo del film aveva cinquantacinque anni. Ecco è stato proprio questo nodo la grande incomprensione ed errore di fondo: crediamo che l’età scenica del protagonista sia molto lontana da quella sia di Mazzarella prima che di Cecchi oggi, ultraottantenni, e la loro scelta sia assolutamente fuorviante per un personaggio che beve in maniera smodata e smisurata, dorme sotto i ponti al freddo, lavora come traslocatore e facchino, una chiara discrasia e un palese disequilibrio che fa frizione fin dalle prime battute e con la quale non siamo riusciti a far pace fino ai titoli di coda.
.
Sottoscrivo totalmente