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A volte assistiamo a qualcosa di straordinariamente sovrastimato rispetto alla qualità che vediamo realmente in scena. Ci sono fenomeni spinti, pompati e pubblicizzati dei quali non capiamo fino in fondo i meccanismi e le dinamiche non riuscendo a darci una spiegazione plausibile, una giustificazione consona. Interrogativi che sfuggono alla logica. Come è possibile che undici istituzioni teatrali europee abbiano finanziato e promosso l’ultimo lavoro del sovradimensionato artista greco Euripides Laskaridis è davvero un mistero insondabile. Enti francesi, belgi, finlandesi, spagnoli, olandesi, bulgari, ovviamente greci, e italiani con il Teatro della Pergola (dove abbiamo visto l’opera), il Torinodanza e la Fondazione Teatri di Reggio Emilia hanno sovvenzionato questo Lapis Lazuli vagamente innocuo, ingenuo, lievemente simpatico, dolcemente ironico, assolutamente soft. Si basa tutto sul grottesco, roba che, ad esempio, Filippo Timi la fa da prima e molto meglio. Un paio d’anni fa ci colpì, sempre alla Pergola, negativamente, il suo lavoro precedente Elenit un assemblaggio confusionario di scene una di seguito all’altra. Dobbiamo riconoscere però che per quanto riguarda i costumi, le scene e le musiche sono stati curati, raffinati e ricercati. Pièce senza parole, come è rimasta del resto la platea che ha tentato di assecondare quello a cui stava assistendo, ha azzardato qualche timido sparuto applauso, ha provato a difendere la sua scelta internazionale. E’ quello che dovrebbe stare all’interno del recinto formale che zoppica e incespica. Molta estetica, e ben realizzata, e poca sostanza. Una sensazione di vuoto da colmare. Tutto un po’ fine a se stesso. Se Elenit ci incupì senza turbarci, questo Lapis Lazuli ci ha lasciato più indifferenti che basiti.
Un Diavolo si trasforma in un Lupo Mannaro con boccoli (non si sfugge alla moda del gender fluid) un pelosissimo (come Lucio Dalla) cavernicolo, e qui s’innesca la storia ancestrale e secolare di Cappuccetto Rosso (in questo caso isterica e più pericolosa della fiera sanguinaria del bosco) e della Nonna camuffata con inserti da La Bella e la Bestia. L’oscuro e il tenebroso cupo lasciano spazio alla farsa di maniera. La platea tenta di ridere, si sforza di trovare un pretesto per giustificare la serata. Sorrisi artefatti, abbozzati. Il Cacciatore della favola noir pare il serial killer con la maschera da hockey delle pellicole thriller/horror/splatter. Il Lupo somiglia al già citato Timi con rimandi somatici a Pietro Castellitto ed echi di Luca Marinelli. Ci sono uccelli a forma di mani dei personaggi dei fumetti (in un lampo-citazione dal Fantasia disneyano?), urla a perdifiato e corse sudate in un caravanserraglio tanto semplice quanto infantile e caotico. Una scena che ha destato il nostro scalpore e la nostra sensibilità invece è stata quella dove il protagonista giustiziava con un colpo di fucile gli altri personaggi già tramortiti e indifesi in una sorta di immaginaria riproposizione (così l’abbiamo interpretata noi) delle atrocità del 7 ottobre israeliano o le esecuzioni dell’Isis che purtroppo troppo spesso abbiamo visto trasmesse dalle televisioni. Si danza macabramente con la morte, si volteggia abbracciati ad uno scheletro.
Il tappeto sonoro di musicalità ancestrale, luttuosa, gotica, primitiva e gutturale si alternava a frammenti di varietà e cabaret con punte orientali e slanci di pathos alla Kill Bill. Scena di enfasi profonda, cardine e culmine è stata quella dove il Lupo vomitava litri di yogurt per poi rimettere il suo pelo (come fanno i gatti) e infine tutti gli oggetti presenti sul palco, in una sorta di buco nero al contrario che restituiva il precedentemente ingerito e fagocitato. Dai conati densi e dai rigurgiti biancastri si passa ad una pepita/pianeta di dorata luccicanza che lo ha inglobato trasformandolo, in una vera e propria rinascita universale, fino ad una dance disco in un affastellarsi di scene e di pose. Il senso drammaturgico di questi quadri ci è sfuggito, a parte la storia dei Grimm; ad un’estetica frizzante e colorata non ha fatto da contraltare un fondamento all’altezza di mosse con poco costrutto. Più che Lapis è stato un Lapsus, una mancanza, una distrazione, un’assenza. Dobbiamo ricrederci su Timi. Dobbiamo chiedergli scusa. Timi lo avrebbe fatto (molto) meglio.
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