Il miracolo di Kaveh Akbar: la poesia, vuoto che crea spazio

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Kaveh Akbar

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Kaveh Akbar Is Poetry’s Biggest Cheerleader. Questo titolo, tratto da un articolo di NPR del 2018, non è solo una celebrazione del poeta iraniano-americano Kaveh Akbar, ma una perfetta sintesi: scrittura come atto di devozione, una pratica che si nutre di sé stessa, che esiste per il suo stesso farsi.

Se con Calling a Wolf a Wolf Akbar aveva raccontato la dipendenza dall’alcool con una lirica cruda e confessionale, Il miracolo (appena pubblicato in Italia da il Saggiatore) amplia la sua indagine su temi esistenziali, etici e spirituali.

La questione della dipendenza, centrale nella prima raccolta, non scompare ne Il miracolo, ma si trasforma: se prima era un’ossessione totalizzante, ora diventa una delle molte forme di vuoto con cui il poeta fa i conti.

In un passaggio particolarmente significativo Akbar scrive:

“Immagina il vuoto in te, le vaste cavità che hai impiegato una vita a tentare di riempire – con padri, madri, amanti, lingue, droghe, soldi, arte, lode – e immaginale perdute.
Cosa rimane?
Quello che non sei, che è ciò che ti fa – una casa utile non per le assi i soffitti o le mura, ma per lo spazio vuoto nel mezzo”.

Il vuoto non è solo un’assenza da colmare, ma un principio costitutivo dell’essere.

Akbar abita la dicotomia tra la sostanza e l’assenza, suggerendo che è proprio il vuoto a darci forma, così come il silenzio struttura la musica o lo spazio tra le parole rende possibile il verso poetico.

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Calligrafia di Kanjuro Shibata XX

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LA CASA SENZA MURI

La concezione del vuoto in Akbar trova forti risonanze nella filosofia buddista, in particolare nella dottrina della “sunyata” (vacuità).

Secondo questa visione, tutto è interdipendente e privo di un’esistenza intrinseca e separata.

Akbar traduce questa intuizione in poesia: il vuoto non è da temere, ma da abitare, proprio come la casa evocata nel frammento sopra citato.

La vera dimora non è fatta di mura, ma dello spazio che esse contengono e rendono fruibile.

Nel buddhismo Zen, si dice che una tazza è utile per il suo vuoto, non per la ceramica che la compone.

Analogamente, Akbar sembra dirci che l’identità umana è costituita più da ciò che le manca che da ciò che possiede.

Ne Il miracolo, il poeta abbraccia questa condizione con un linguaggio che non cerca di riempire, ma di rivelare, spesso per strade che trascendono dalla logica narrativa per affidar la propria efficacia in primis ai puri significanti.

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DOVE FINISCE IL CORPO, INIZIA IL NOME

Il rapporto tra corpo, nome e identità è una delle tensioni centrali nella mistica sia occidentale che orientale. In molte tradizioni, dal sufismo di Rumi alla teologia negativa cristiana di Meister Eckhart, l’individuo è visto come un’illusione destinata a dissolversi nel divino.

La stessa idea percorre le filosofie induista e buddhista, dove il “sé” è spesso considerato una costruzione illusoria, e la vera conoscenza passa attraverso la sua dissoluzione.

Kaveh Akbar si inserisce in questa tradizione mistica, facendo della poesia uno strumento di ricerca e di perdita del sé.

Ne Il miracolo, il nome non è solo un simbolo identitario, ma un confine labile tra esistenza e annullamento, tra memoria e dimenticanza.

L’atto di nominare qualcosa, come accade nella creazione biblica o nei poemi sufi, è sempre un atto di potere, ma anche di separazione: nel momento in cui si nomina qualcosa, lo si fissa e lo si distingue dal resto dell’universo.

Akbar usa il linguaggio per evidenziare questo paradosso.

I suoi versi, spezzati e frammentari, evocano il tentativo di dire l’indicibile, di catturare ciò che sfugge.

Questa ricerca si riallaccia a esperienze poetiche come quelle di Juan de la Cruz, il cui Cantico spirituale è un viaggio di perdita e di unione con Dio, o come la poesia di Emily Dickinson, che con i suoi trattini e le sue frasi sospese anela a rendere percepibile l’invisibile.

Così come per Rumi la danza mistica portava alla fusione con il divino, per Akbar il linguaggio è una danza di perdita e riscoperta, una lotta tra il corpo e il nome, tra il sé e il nulla.

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Emily Dickinson

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L’ATLANTE CHE PORTO DENTRO

Akbar è un poeta che contiene moltitudini, per dirla con Walt Whitman: nato in Iran e cresciuto negli Stati Uniti, incarna il dialogo tra due culture spesso considerate in opposizione.

Il miracolo riflette questa tensione identitaria ibridante, con versi che mescolano riferimenti islamici, cristiani e buddhisti, oltre a immagini della cultura americana contemporanea.

In alcune poesie, il poeta si confronta con il senso di estraneità rispetto alla lingua materna, il persiano, mentre in altre esplora il senso di appartenenza a una nazione che sempre più, ahinoi, percepisce i migranti come “altro”.

Questa stratificazione culturale rende la sua poesia un ponte tra mondi, una casa costruita sul vuoto ma aperta a ogni voce.

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UNA LINGUA CHE NON PUÒ ESSERE CONTENUTA

La vastità dei significati in Il miracolo si traduce anche visivamente sulla pagina: Akbar sperimenta con lingue diverse, spazi bianchi e disposizione tipografica per esprimere ciò che la sola linearità del verso non può contenere.

Questa ricerca formale trova paralleli in esperienze poetiche come quelle di Apollinaire e i suoi calligrammi, E.E. Cummings con la sua sintassi frammentata, o in Italia Giuseppe Ungaretti, il cui ermetismo spogliava il verso fino alla sua essenza più pura.

La molteplicità linguistica di Akbar richiama anche Paul Celan, che scriveva in tedesco contaminandolo con altre lingue per sovvertirne, o comunque allargarne, il significato.

Ne Il miracolo, la lingua si fa labirinto e apertura, rivelando un’idea di poesia che non cerca solo di dire, ma di mostrare visivamente le tensioni e le stratificazioni di un’identità impossibile da racchiudere in un’unica forma.

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Charles Bukowski – ph Mark Hanauer

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HO PROVATO A SPARIRE, MA SONO RIMASTO

In questo senso, Akbar è davvero “il più grande tifoso della poesia”: non solo la pratica e la celebra, ma la interroga e la mette in discussione, consapevole del suo potere salvifico ma anche dei suoi limiti.

Se Calling a Wolf a Wolf era una confessione, Il miracolo è un’apertura verso il mistero, un libro che esplora il vuoto senza cercare di riempirlo, trasformando il personale in universale e il dolore in un atto di creazione.

Kaveh Akbar non è il primo artista a confrontarsi con la dipendenza.

La storia della letteratura e dell’arte è costellata di figure il cui talento si è intrecciato con l’alcool o altre sostanze: da Charles Baudelaire e la sua Fleurs du mal, a Dylan Thomas e il suo rapporto autodistruttivo con la bottiglia, fino a musicisti di oggi come Amy Winehouse o scrittori come David Foster Wallace e Charles Bukowski.

La domanda che emerge è complessa: la sofferenza alimenta l’arte o l’arte è un mezzo per trascenderla?

La poesia è un rifugio per le anime tormentate o può essere uno strumento di evoluzione personale e collettiva?

Akbar, con il suo lavoro, sembra suggerire che il vero miracolo non è scrivere, ma trovare nella poesia un modo per continuare a esistere.

Si badi bene: senza consolazione. Scavando.

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