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Io, Aldo Nove, non l’avevo mai letto.
Io, Inabissarsi, l’ho letto tre volte a fila.
In tre giorni.
Ho finito e ho ricominciato. Ho finito e ho ricominciato. Ho finito e ho ricominciato.
E, ogni volta, è come se stessi leggendo un libro diverso.
Intendo: completamente diverso.
In questa piccola restituzione, che non posso chiamare recensione per mancanza di sufficiente sapere, non posso che dire io.
Che è cosa che nelle recensioni, appunto, non si fa.
Ma tale è la convocazione di questo suo vagare e divagare.
Per minimo orientamento, posso dire che quest’opera indefinibile, meglio inesauribile, ne contiene almeno tre.
Uno è un racconto autobiografico: dai sogni e le auto-lettere infantili allo star ragazzino nudo e dolente nei boschi, «natura uguale alla natura», dalla sveglia «alle 01.35 per scrivere» alla visita in treno di Franco Buffoni e Milo De Angelis, accolti alla stazione di Bisuschio-Viggiù insieme allo zio «analfabeta, campione del mondo di bestemmie, indefesso lavoratore acritico e antisindacale, di conclamata fede fascista, amante di costine ai ferri e visite domenicali agli store di calzature o di mecche dei ferramenta».
Una è un’antologia critica di poesia: da Elio Pagliarani (e il suo scrutar le arance come fossero pianeti da scoprire) a Friedrich Hölderlin, dai «maestosi balbettamenti» di Guido Ceronetti a Giovanni Giudici, dalle immersioni ed emersioni di Nanni Balestrini alla «precisione da meccanico di Formula 1 durante il pit stop» di Emily Dickinson, da Eugenio Montale alla Pornografia di Aldo Palazzeschi, a tanti, tanti altri.
Una è una meditazione sul mondo e sul linguaggio, sulla loro capacità di inabissarci. Sul suo essere destinato alla poesia, in un intreccio fondo come il respiro. Affiora anche Amelia Rosselli, un cui frammento citato ricopio per intero, perché esemplare dell’ineluttabilità organica della poesia qui nominata: «Io quando finisco una poesia tiro un sospiro di sollievo, perché altrimenti soffoco. Riprendo a respirare e poi daccapo, con una nuova poesia».
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Quel che succede, meglio, quello che mi è successo leggendo, rileggendo e trileggendo queste pagine, è stato più e più volte pescare dal mio personale repertorio di frequentazioni poetiche e così, in un certo senso, continuare l’opera di Nove.
Pescare: penso alla composizione istantanea nel jazz, o nella Commedia dell’Arte, in cui l’improvvisare ha/aveva a che fare con la capacità di attingere all’improvviso da un proprio repertorio di possibilità e, accordandosi a ciò che in quel qui e in quell’ora accadeva, (circo)scrivere una forma. Questo, azzardo, mi sembra uno dei possibili itinerari del vagare e divagare sopra nominato.
Continuare: penso alle molte opere in cui l’artista non si presenta tanto, o almeno non principalmente, come chi ha in dote una esplicita e manifesta téchne che lo distingue e separa da chi artista non è, piuttosto alle creazioni come dispositivi in cui viene iniziata un’azione che si è invitati a proseguire affinché l’opera si compia, finanche esista.
Penso ad esempio alla famosa installazione di Franco Vaccari alla Biennale di Venezia nel ’72: Esposizione in tempo reale, si chiamava. C’era una cabina per farsi una strisciata di autoscatti, di quelle che si trovavano nelle piazze, a volte negli angoli delle strade, o delle stazioni, o dei municipi. Vaccari si fa quattro foto, le attacca a un grande muro bianco in cui c’è una scritta in più lingue, Lascia su questa parete una traccia fotografica del tuo passaggio. E va a casa. Nel corso dei mesi il muro si popola di figure, piccolo povero teatro anatomico sbilenco e dilettante, pacchiano e commovente, zeppo di smorfie e sorrisi, timidezze e sguaiatezze, facce da funerale e da matrimonio.
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Non che l’opera di Nove sia così esplicitamente interpellante, tutt’altro: in molti momenti il suo vagare e divagare nel labirinto magnetico e magmatico di queste 222 pagine pare faccenda del tutto privata, che non si può far altro che sbirciare non visti.
Il continuare che mi sembra questo Inabissarsi contenga, e in qualche maniera incoraggi, ha a che fare con lo smascheramento. Con lo specchiarsi, attraverso l’opera, in quel che si è, per sguaiato o pacchiano che sia.
Quel che fa, Inabissarsi, è farci continuare a guardare, anche dove e quando sembra non ci sia niente da guardare.
E invece.
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