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Da anni, propongo un laboratorio di sguardo per “allenarsi a incontrare il mondo attraverso l’arte contemporanea”: Opere aperte.
Il titolo è un omaggio a Umberto Eco, al saggio del ’62 in cui analizza il gesto dell’artista che, distante da ogni esibizione di téchne, si fa iniziatore di un’opera che solo la partecipazione del pubblico potrà far esistere.
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GUARDARSI GUARDARE
Nel laboratorio curiosiamo fra luminose esperienze artistiche, dalle Avanguardie ad oggi.
Attraversiamo e ci facciamo attraversare dalle visioni di Marcel Duchamp e Claude Cahun, di Hannah Höch e Filippo Tommaso Marinetti, di Gino Severini e Man Ray, di Luigi Russolo e dei Fratelli Bragaglia, di Allan Kaprow e Franco Vaccari, di John Cage e Marina Abramović, di Piero Manzoni e di Yoko Ono, di Gino De Dominicis e di Erwin Wurm, di Félix González-Torres e di Olafur Eliasson, di Richard Serra, di Jeppe Hein e del tanto discusso Damien Hirst: autori presi in considerazione come utensili atti a smontare e rimontare il nostro sguardo.
Non un bignami di storia dell’arte contemporanea, bensì un’occasione concreta di utilizzare le stramberie che molti autori hanno ideato per accorgersi di come guardiamo la realtà circostante e di come, spesso inconsapevolmente, il giudizio prenda il sopravvento: guardarsi guardare, direbbe il filosofo Maurice Merleau-Ponty.
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UN ESEMPIO AL CONTRARIO
Nell’introduzione al laboratorio, per delimitare il campo di indagine, solitamente propongo come “esempio al contrario” un dipinto a olio su tela del 1524 di Giovanni Francesco di Niccolò Luteri, detto Dosso Dossi: Giove pittore di farfalle.
Vi sono sulla sinistra Giove, intento appunto a dipingere farfalle, al centro Mercurio che con un chiaro gesto della mano zittisce la Virtù, collocata a destra, che vorrebbe interagire con Giove.
Tra le molte possibili chiavi interpretative, dal punto di vista tematico, vi è quella di un artista che, per realizzare la propria opera, non può e non vuole essere disturbato dal mondo: nell’ambito del discorso del mio laboratorio un esempio, appunto, al contrario rispetto al campo di indagine individuato.
È quindi da molti anni che quest’opera mi accompagna e che avrei voluto vederla: ma solitamente è collocata a Cracovia, nel Castello Reale di Wawel: non proprio un luogo facile da raggiungere.
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DA CRACOVIA A FERRARA
Ecco che l’occasione offerta dalla mostra Il Cinquecento a Ferrara, aperta a Palazzo dei Diamanti fino a dopodomani, domenica 16 febbraio, è stata per me imperdibile per incontrare questo capolavoro, peraltro utilizzato nei materiali di comunicazione come immagine-simbolo dell’esposizione.
«La mostra racconta le vicende artistiche del primo Cinquecento a Ferrara, dagli anni del passaggio di consegne dal duca Ercole I d’Este al figlio Alfonso I (1505), fino alla scomparsa di quest’ultimo (1534), committente raffinato e di grandi ambizioni, capace di rinnovare gli spazi privati della corte come quelli pubblici della città» si legge nella presentazione generale «Il tramonto della generazione di Cosmè Tura, Francesco del Cossa e Ercole de’ Roberti pone Ferrara di fronte alla difficile sfida di un ricambio artistico di alto livello. All’inizio del nuovo secolo si sviluppa una nuova scuola, più aperta agli scambi con altri centri, che ha come protagonisti quattro maestri: Ludovico Mazzolino, pittore dall’estro bizzarro che orienta il suo linguaggio in senso anticlassico; Giovanni Battista Benvenuti detto Ortolano, sempre caratterizzato invece da un naturalismo convinto e sincero; Benvenuto Tisi detto Garofalo, il principale interprete locale della maniera di Raffaello, e Giovanni Luteri detto Dosso, che sviluppa uno stile originale, colto e divertito, influenzato tanto da Giorgione e Tiziano quanto dalla Roma di Michelangelo. La mostra accompagnerà il visitatore attraverso una stagione incredibilmente ricca, dove l’antico e il moderno, il sacro e il profano, la storia e la fiaba si fondono in un mondo figurativo che può definirsi, in una parola, ferrarese».
Senza, ça va sans dire, alcuna pretesa di esaustività nella restituzione della stratificata articolazione di questa esposizione le presenti note, che vogliono essere un semplice invito alla visita in questi ultimissimi giorni di apertura, si focalizzano su un aspetto specifico: la diversa ricezione, nel Cinquecento e oggi, dei codici visivi di alcune opere incontrate a Palazzo dei Diamanti.
Molti dei simboli che nel Cinquecento risultavano immediati per il pubblico colto sono ora spesso inaccessibili a uno spettatore moderno. Il modo in cui l’arte veniva letta e compresa all’epoca era profondamente influenzato dalla cultura umanistica e religiosa, con forti connessioni alla filosofia neoplatonica, alla teologia cristiana e alla retorica classica.
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IL RITO SACRO: LA CIRCONCISIONE DI LUDOVICO MAZZOLINO
Mazzolino, nella sua Circoncisione, raffigura il momento in cui Gesù bambino viene sottoposto al rito ebraico della circoncisione. Per un osservatore del Cinquecento, la scena non era solo un episodio del Vangelo, ma una prefigurazione teologica della Passione: il sangue versato da Cristo bambino anticipa il sacrificio della Croce. Secondo la lettura neoplatonica dell’epoca, la rappresentazione della carne trafitta evocava la dottrina della purificazione dell’anima attraverso la sofferenza. Inoltre, la folla di personaggi in movimento non è meramente decorativa: ogni figura incarna un diverso atteggiamento spirituale, dall’incredulità alla devozione, offrendo così un esempio di come l’arte fosse anche un manuale di meditazione visiva.
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IL PESO DELLA FEDE: CRISTO SORRETTO DA NICODEMO DI ORTOLANO
Il Cristo morto sorretto da Nicodemo è un tema profondamente mistico. Nel Cinquecento, questa scena era interpretata come un’allegoria della conoscenza mistica e della transizione dall’ombra alla luce. Nicodemo, nel Vangelo di Giovanni, è l’uomo che inizialmente si avvicina a Gesù di notte, simbolo dell’anima ancora immersa nelle tenebre dell’ignoranza. Sorreggere Cristo dopo la Crocifissione significa, quindi, aver compreso la Verità e aver abbracciato la fede. Per gli intellettuali quest’immagine era una rappresentazione perfetta della conversione dell’anima, mentre per il pubblico più popolare rimandava alla Pietà, evocando il dolore e la compassione della Vergine Maria.
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LA FURIA UMANA: IRA O LA ZUFFA DI DOSSO DOSSI
Dosso Dossi, maestro del colore e dell’invenzione fantastica, rappresenta la furia e il conflitto umano in un quadro che nel Cinquecento era un’allegoria morale. L’ira era una delle passioni dell’anima da controllare, poiché poteva portare alla rovina tanto dell’individuo quanto della comunità. La scena caotica e i volti stravolti dei personaggi non erano solo una descrizione del tumulto, ma una rappresentazione visiva del disordine interiore causato dalla perdita della ragione. In un’epoca in cui la pittura doveva educare e ispirare, questo dipinto funzionava come un ammonimento contro gli eccessi delle passioni incontrollate.
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IL MITO E LA BURLA: ERCOLE E I PIGMEI DI DOSSO DOSSI
Ercole, circondato da piccoli e grotteschi pigmei, è un’opera che nel Cinquecento si sarebbe letta come una metafora della superiorità della ragione sulla rozzezza. L’eroe classico, simbolo della virtù e della forza, si trova in una situazione paradossale, circondato da creature incapaci di comprenderlo. Questo richiamava la dialettica tra sapienza e ignoranza, tra il sapiente e la massa. La scena ironica e leggera celava dunque un messaggio: la conoscenza è un privilegio che va coltivato e difeso dall’ottusità e dal caos..
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CONCLUSIONE: IL LINGUAGGIO NASCOSTO DEI REBUS
Un aspetto affascinante dell’arte del Cinquecento è il suo gioco intellettuale, evidente nella firma di Dosso Dossi: una “D” con all’interno un osso, un rebus che il pubblico del Cinquecento decifrava con facilità. L’uso di questi enigmi visivi era segno di un’epoca in cui l’arte non era solo compiacimento estetico, ma anche esercizio della mente. Oggi, la perdita di queste chiavi di lettura ci lascia con opere che ammiriamo per la loro bellezza formale, ma il cui messaggio spesso ci sfugge.
Come possiamo evitare il progressivo analfabetismo culturale e il rischio di un imbarbarimento della sensibilità artistica?
La riscoperta della lettura simbolica dell’arte può essere una via per riappropriarci della nostra storia culturale e per imparare a guardare oltre la superficie delle immagini?
Forse una possibile sfida del nostro tempo è tornare a leggere l’arte con gli occhi al contempo ingenui e consapevoli di alcune donne e uomini del Cinquecento?
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