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La mostra Il Ritratto dell’Artista. Nello specchio di Narciso. Il volto, la maschera, il selfie, appena inaugurata al Museo Civico San Domenico di Forlì dove sarà visitabile fino al 29 giugno, prende le mosse da un’immagine fondativa: quella di Narciso che si specchia nell’acqua.
Un autoritratto non cercato, ma scoperto.
Non voluto, ma imposto dalla contingenza del riflesso.
Narciso inciampa nella sua stessa immagine, e in questo inciampo nasce una consapevolezza tragica: il volto visto non è mai del tutto posseduto.
Tale partenza invita a riflettere sul fatto che l’arte, da sempre, si scontra con l’impossibilità di trattenere, o anche solo di significare pienamente, il proprio oggetto.
Vien da pensare a Roland Barthes, alla sua idea di punctum: una specie di fuori-campo, «come se l’immagine proiettasse il desiderio al di là di ciò che essa dà a vedere».
Se Narciso muore per l’irraggiungibilità della propria immagine, l’arte intera si misura con la medesima vertigine: l’incapacità di catturare completamente la verità del soggetto.
Una problematica che ha attraversato il pensiero estetico novecentesco, da Hans-Georg Gadamer a Georges Didi-Huberman, fino a Jacques Derrida, per i quali l’arte è sempre differita, mai coincidente con la realtà che vuole rappresentare.
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MASCHERA E PERSONA: IDENTITÀ E RAPPRESENTAZIONE
Il percorso espositivo prosegue con un’analisi dell’origine teatrale della maschera e del concetto di “persona”, nelle sue accezioni etimologiche greca e latina.
Se per i Greci la prosopon è il volto come superficie vista, per i Romani la persona è già un ruolo sociale, un’identità mediata dal contesto.
Il teatro antico si sviluppa proprio attorno a questa dualità: la maschera teatrale non solo amplifica la voce, ma separa anche l’attore dal personaggio, rendendolo un’emanazione simbolica più che un individuo reale.
Questa riflessione si collega profondamente alla questione dell’identità nell’arte: la rappresentazione di sé è sempre filtrata da un ruolo, un’immagine costruita per il pubblico.
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GIOVANNI BELLINI: PRESENTAZIONE, RAPPRESENTAZIONE, TEATRO
Un punto cardine della mostra è la Presentazione di Gesù al Tempio di Giovanni Bellini (1460 circa).
Il quadro si fa emblema del legame tra arte, sguardo e auto-esposizione dell’artista.
La scena sacra è costruita come un palcoscenico, con i personaggi disposti secondo un principio di visione calibrata, di sguardi incrociati che stabiliscono relazioni di senso.
Dal punto di vista stilistico, Bellini utilizza una luce morbida e diffusa, che conferisce monumentalità ai soggetti e li separa con delicatezza dallo sfondo. L’uso del colore, vibrante e trasparente, contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, quasi metafisica, che amplifica il senso di una sacralità teatralizzata. Bellini ci ricorda come la pittura, prima ancora di essere un mezzo di espressione individuale, sia un dispositivo di presentazione al mondo, una modalità di apparizione dell’io.
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GIORGIO DE CHIRICO E L’AUTORITRATTO DISINCANTATO
Nel Novecento, l’autoritratto si sgancia dalla celebrazione dell’artista per diventare uno spazio di interrogazione del sé.
Ne è esempio l’Autoritratto nudo di Giorgio de Chirico, presente in mostra, dove il maestro metafisico si dipinge con un’assenza di nobilitazione, quasi negando la propria stessa grandezza.
Curioso il fatto che, nella versione originale del 1945, de Chirico si ritragga completamente nudo, salvo poi “vestirsi” nel 1949 per poter esporre l’opera alla Royal Academy di Londra. Un gesto che testimonia il conflitto tra rappresentazione e autocensura, tra verità e costruzione.
Questo atteggiamento è comune a un certo gruppo di artiste e artisti, almeno dalle Avanguardie Storiche in poi, che negano l’ideale classico di bellezza, anche nell’autoritratto, preferendo frammentarlo, deformarlo, ironizzarlo.
Basti pensare ai collage di Kurt Schwitters, ai volti spettrali di Francis Bacon o agli autoritratti ironici di George Grosz, che distruggono la pretesa di un’identità fissa e glorificata.
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BILL VIOLA E MARINA ABRAMOVIĆ: IL SÉ COME ESPERIENZA SENSORIALE
L’ultima sala della mostra porta nel contemporaneo, con Bill Viola e Marina Abramović, tra gli altri.
Qui il concetto di ritratto diventa una questione performativa: non più il volto come immagine statica, ma il sé come processo, come interazione con il pubblico.
Bill Viola lavora sulla dissoluzione dell’immagine, con una video-installazione acquatica che mostra il volto come soglia tra visibile e invisibile. L’acqua, elemento ricorrente nel suo lavoro, richiama il riflesso di Narciso, ma ne capovolge il destino: nella sua opera il volto emerge, si trasforma, diventa flusso di energia e transitorietà.
Marina Abramović, invece, usa il proprio corpo come tela, sperimentando il limite dell’io attraverso la performance. Il dittico presente in mostra diventa un accadimento in cui il soggetto guardante è parte attiva della costruzione del significato. Il volto non è solo rappresentato, ma vissuto, osservato, messo alla prova.
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IL VOLTO VISTO: EBE E IL GIOCO DEGLI SPECCHI
L’esperienza della mostra culmina in un momento di sospensione: l’incontro con l’Ebe di Antonio Canova, in una sala vuota, circondata da specchi.
La scultura appare moltiplicata, sfuggente, mentre il mio stesso riflesso si moltiplica con essa.
Qui il concetto greco di prosopon si manifesta in tutta la sua potenza: il volto, ancora una volta, non è univoco, ma il risultato di un gioco di sguardi, di una costruzione che sfugge alla presa.
Questo incontro finale riassume, forse, il senso dell’intera mostra: il ritratto non è un’immagine fissa, ma una tensione irrisolta, un riflesso che continuamente ci rimanda a ciò che siamo e a ciò che non possiamo mai completamente possedere, né circoscrivere.
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UNA SCIVOLOSA DOMANDA FINALE
Ce ne siamo andati dal Museo con un pensiero, in testa: se l’arte è specchio, o almeno rifrazione, della società, può la rappresentazione del volto – tra maschera e identità, riflesso e presenza – diventare uno strumento di consapevolezza critica condivisa, capace di rivelare e di problematizzare le dinamiche di potere e le costruzioni sociali che determinano il nostro modo di essere e di relazionarci?
O la funzione meramente decorativa, in questi tempi di crescente abbruttimento, è destinata a prevalere?
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