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Elegia, nell’etimo, ha a che fare col canto.
E il canto, con il racconto.
Il primo grazie va dunque ad Alessandra Bucchi, che con sapiente leggerezza ed esatta maestria ha guidato me e un manipolo di altre persone curiose nel tour che, in autobus, l’8 febbraio scorso ci ha fatto incontrare le opere installative dentro e attorno alle dieci Porte della Città, evento speciale di Art City Bologna 2025.
Mi soffermo ora su due elegie.
Speculari: pars construens e pars destruens, a dar forma a voce a un dolore che non finisce.
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Elegy (nomen omen) di Gabrielle Goliath, collocata dentro a Porta Santo Stefano, «è un atto di ricordo collettivo, un’invocazione alla presenza assente di donne o individui LGBTQIA+ violentate e uccise in Sudafrica» leggo nella presentazione «Sviluppata a partire dal 2015 e rappresentata in diverse istituzioni internazionali, Elegy è una lunga performance commemorativa in cui un gruppo di sette interpreti vocali femminili sostengono il canto della medesima nota per la durata di un’ora. Il canto sembra affievolirsi, destinato a dissolversi nella scena buia, fino a quando la successiva performer ne ravviva la potenza. Il suono continuo generato rimarca la brutale persistenza della cultura endemica della violenza e dello stupro, così come di atteggiamenti transfobici, queerfobici o afrofobici. Ciascun lamento funebre è rivolto a una specifica persona, la cui memoria è tramandata, all’interno dell’installazione, da un testo scritto da madri, sorelle, familiari o persone vicine alla vittima. Vengono enunciati i loro nomi, le loro abitudini, le loro qualità, ma anche la violenza e gli atti di sopraffazione a cui sono state sottoposte».
Quest’opera si innalza per dire no e no e no e no.
Nella sala nera dieci schermi mi circondano, in ciascuno alcune donne di nero vestite camminano lentamente in circolo.
Una alla volta sale su una piccola pedana: mi guarda e si fa guardare.
Mi chiama dentro, quello sguardo nudo e che denuda: chi guarda chi?
E quella voce, fatta di molte voci: non finiscono, come le brutalità che affrontano.
Anche se con biografie peculiari e da tempi e luoghi diversi, arriva qui, arriva ora, un continuum in cui la voce si fa atto di memoria, per dieci persone che hanno subito violenza, dieci vite che altrettante pagine, al piano di sotto, raccontano, affinché la dedica sia per nomi e cognomi, non per generici numeri di esistenze spaccate.
Salome Masooa la protettiva e Sezakele Sigasa la severa, Noluvo Swelindawo la coraggiosa e Joan Thabeng l’illimitata, Eunica Ntombifuthi Dube uccisa a martellate e Carron Britz che scriveva poesie a Dio, Cornelia van Piloane che raccontava fiabe e Louisa van de Caab accoltellata dietro casa, Lerato ‘Tambai’ Moloi che giocava a calcio per la strada e Hannah Cornelius dal sorriso contagioso.
Una elegia larghissima per, parafrasando il poeta, ergersi con un fermo proposito, ed essere pericolose.
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In Tremendous gap between you and me, installazione site-specific di Fatma Bucak all’interno di Porta Castiglione, un cumulo di pietre ha incontrato una poeta.
Celare per meglio mostrare: ce l’hanno insegnato Christo e Jeanne-Claude, e prima di loro Man Ray con il suo enigma.
Una elegia, un canto di dolore, affiora tra le pietre.
Lì molto vicino c’è Hildegard di Bingen, monaca medievale che conteneva moltitudini: mistica e poetessa, ma anche guaritrice ed erborista, cosmologa e gemmologa, filosofa e linguista, drammaturga e compositrice.
La voce che affiora è al contempo carnosamente presente e fantasmaticamente schiacciata da tutto quel peso.
Lì attorno, la città e la sua sbarcata indifferenza.
Sulla sinistra un uomo con gli occhiali a specchio con le lenti fucsia e il busto proteso in avanti cerca in tutti i modi di convincere una minuta signora ad affittare ad agosto un appartamento a Cortina.
È un must Cortina, le ripete. È un must, Cortina.
Sulla destra tre giovani con occhiali da sole a raccontarsi i piani per la serata.
Vediamoci e così facciamo una chiacchiera.
Il canto continua a uscire dalle pietre: ora presente, quasi squillante, ora lontano e gracchiante.
E poi ancora, e ancora: non dà tregua, non dà consolazione.
Sulla sinistra sbuca un bambino, avrà quattro o cinque anni, scarpe da calcio e pallone, certo arriva dai Giardini Margherita.
Dietro di lui un papà sorridente e barbuto.
Il bambino si accovaccia davanti a una delle pietre, lì in basso.
Appoggia l’orecchio e chiude gli occhi: chissà che cosa sente.
Poi, di colpo, sguscia via.
Il cacciatore di affitti continua a dire e dire e dire.
I chiacchieranti anche.
La voce dolente continua a uscire dalle pietre.
Guarda che buffo quel tipo lì davanti, avrà pensato qualcuno, sta lì impalato davanti a un mucchio di pietre.
Guarda che buffo, avrà pensato qualcuno, sta lì davanti, e piange.
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