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C’è del mitologico, del paranormale, del filosofico in questo Ex – Esplodano gli attori che vive e si agita, letteralmente in un continuo flashback avanti e indietro nel tempo che leggermente disorienta come il mal di mare, in un monumentale latteo bianco dal gusto purgatoriale. Non si fatica molto a capire dove siamo, in un’anticamera, una sala d’attesa per ripianare le colpe, per appianare gli attriti, per perdonare gli screzi, una reunion familiare per volersi bene e seppellire sotto la sabbia asti antichi, vicende che hanno fatto male, ferite ancora aperte. Il titolo del testo del drammaturgo uruguaiano Gabriel Calderon prende le mosse dalla dittatura subita a Montevideo e dintorni negli anni ’70 ma è, forse volutamente, fuorviante: da una parte ci ricorda le relazioni sentimentali non andate a buon fine, mentre nel sottotitolo una critica ai protagonisti del palcoscenico, mentre le parole del Presidente della Repubblica Mujica, recentemente scomparso, si riferivano agli attori politici dell’epoca in una sorta di pacificazione sociale e politica.
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Questo strano Ex (prod. Metastasio di Prato, Teatri Associati Napoli, visto al Piccolo Bellini di Napoli) si svolge tutto in un soggiorno attorno ad una tavola, quasi un’ultima cena postuma. Il testo è un’altalena tra l’alto filosofico e la rissa in un equilibrio difficile con un forte lato grottesco, a tratti sguaiato. Certo, il tutto è una metafora: la riunione di famiglia per Natale, una famiglia che non è mai stata unita, il Natale che non hanno mai festeggiato tutti insieme allo stesso tavolo. Centrale è il tema della felicità e l’altra faccia della sua medaglia, il dolore. Il nonno medico, la nipote giovane e idealista che vuole mettere le cose a posto con la faciloneria dei vent’anni, la madre agguerrita, la nonna sopra le righe e i suoi figli. Tutti distrutti, tutti sofferenti, tutti traumatizzati. Il nonno allontanato dalla famiglia, un fratello innominabile desaparecido, il fidanzato della nipote scienziato folle che ha costruito un macchina del tempo che tanto sa di Ritorno al Futuro (escamotage che banalizza, figura necessaria che però indebolisce l’impianto testuale e lo sfarina con il suo carico di sovrannaturale che depotenzia il racconto e il messaggio) e tanti misteri che avvolgono questo nucleo disperso, disfatto, scomposto, imploso. C’è cattiveria e disprezzo, acredine e violenza quando i nodi che li hanno divisi indelebilmente tornano nel presente per essere affrontati senza poter essere sciolti nemmeno stavolta; tanta, troppa è stata la sofferenza imposta e causata dagli eventi, dalle incomprensioni, dalla mancanza di comunicazione, dalla Storia.
La messinscena (la regia è di Emanuele Valenti che per sé ritaglia il ruolo prima di regista kantoriano poi di personaggio spiegatore delle vicende, formula che appesantisce) è farraginosa e come un disco sul piatto di un dj scarrozza avanti e indietro in un arco temporale ventennale, dalla dittatura che ha sfasciato a questa nuova democrazia, a questo nuovo tempo che vorrebbe sotterrare l’ascia di guerra anche nei casi nei quali è impossibile farlo per sete di vendetta, per i torti subiti. Solo la morte può pareggiare gli affronti sanguinosi della vita perché anche se riportati in vita gli stessi protagonisti di allora continueranno a farsi la guerra, a volere giustizia. Qui il trapasso non rende migliori le persone defunte, non le santifica, non ne fa beati, non ne fa agiografie, qui il decesso non purifica, non scagiona, non pulisce, il passaggio all’Aldilà non placa vecchie istanze. Ognuno mette sul piatto della bilancia gli errori degli altri, le ideologie, le torture subite, il male che gli è stato fatto: arrivare ad un abbraccio finale, ad un vogliamoci bene sanificatorio e solidale è impossibile.
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Dal passato i protagonisti vengono riportati in vita per rimettere in carreggiata l’oggi ma anche cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia, vengono riesumati con un marchingegno, accalappiati dal buio dell’oblio attraverso una porta che conduce alla soglia del mondo di Orfeo ed Euridice, alla bocca del labirinto del Minotauro, in quel vuoto opaco che cristallizza senza analisi, che blocca senza processi. Dal punto di vista attoriale di forte impatto Monica Demuru la madre nervosa, sboccata, energica, volgarmente divertente, alterata e rock, Daniela Piperno la nonna avvinazzata, cinica, tagliente che ci ha ricordato Franca Valeri, Lello Serao il nonno pasionario e tenace, tenero nella perdita della memoria. Una stanza, il presente, dal quale nessuno può uscire, mentre il fuori gronda bombardamenti o un nuovo asteroide pronto a fare piazza pulita. Un gioco al massacro dal quale escono tutti sconfitti perché i fili del sangue sono fragili e a volte il perdono è insopportabilmente inammissibile.
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