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Mettersi una maschera di Carnevale da scheletro per parlare della morte non basta.
Come non bastano alcune gag, neutre, vuote, senza costrutto, per intavolare una drammaturgia che si possa chiamare con questo termine.
Di Sulla morte senza esagerare, (riprendendo le parole della poetessa Premio Nobel per la Letteratura ’96 Wislawa Szymborska) della compagnia lombarda Teatro dei Gordi, è rimasta soltanto una parvenza di un discorso sulla morte, molto superficiale, senza sarcasmo, senza profondità, ma soprattutto è rimasto lo stucchevole senza esagerare.
Già perché il lavoro, brevissimo forse neanche cinquanta minuti (qualcuno all’uscita nel foyer diceva per fortuna), è risultato languido, neutro, debole, senza alcun scatto, inventiva, verve, brio, slancio, grinta, sprint.
Una panchina (come quella dei più famosi e sicuramente più pungenti Ale & Franz) dove non succede altro che un susseguirsi di silenziosi, minimi ingressi, piccole apparizioni che non spostano l’ago della bilancia, che non scalfiscono, che non scaldano, che non fanno risuonare alcun concetto se non un’esibizione di nuove maschere che non apportano alcunché al ragionamento per il quale si dovrebbe mettere in scena qualcosa per mostrarlo ad un pubblico.
Qui non accade niente fiaccamente, non succede nulla stancamente.
Si sente una grande mancanza, un pesante abisso.
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Eppure di spettacoli eccezionali dove l’uso delle maschere è centrale e fondamentale ne abbiamo visti in questi anni, dai berlinesi Familie Floz agli spagnoli Kulunka Teatro, pièce cariche di pathos, energia vitale, sentimento, commozione, gente che a delle maschere inespressive dona, con l’uso del corpo, un’anima, un carattere, dei sentimenti.
Qui si rimane sulla superficie, senza disturbare, senza spingere, senza osare, appunto senza esagerare.
Ne viene fuori un risultato senza spunti né grip, senza garra né grinta né vigore dove niente si manifesta se non entrate e uscite sul palco (forse anche troppo grande per l’impianto: c’è il Signore del Trapasso (più Dart Fener di Guerre Stellari), una malata terminale a spasso con la sua flebo, un impiccato, l’incidentato rider delle pizze, un angelo-Einstein, forse una trans o prostituta.
Sono tutti morti.
Una varia umanità (anzi mortità) in bilico che non riesce a far scattare alcun meccanismo di vicinanza, solidarietà oppure immedesimazione o empatia.
Guardiamo, osserviamo, speriamo in un innesto della miccia.
Vorrebbero, avrebbero voluto forse essere dissacranti e provocatori, cattivissimi noi.
Il respiro della platea sfiancata non è stato di quelli coinvolti tra mille colpi di tosse prima di andare a dormire, sonnecchiamenti, palpebre calanti, un cellulare in azione: si sente, si percepisce quando il pubblico è attento e segue le vicende e si appassiona e si emoziona e cerca con gli occhi e scruta.
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Eppure questo dei Gordi dovrebbe essere il loro lavoro più iconico, la punta di diamante, la cima dell’iceberg: qui al Teatro Puccini lo scorso anno avevano portato Pandora ma si raccontavano narrazioni mirabolanti su questo Sulla morte.
Una pièce innocua che aveva tutte le basi, e i possibili contenuti, per poter dire qualcosa di costruttivo, di vibrante, di generoso, anche, perché no, di urticante.
Qualcuno diceva in medio stat virtus, in teatro invece questa staticità risulta essere monotona e monocorde perché non ha fatto sussultare né cuori né retine.
E non ci inganni e non ci induca in tentazione il fatto che alla fine dello spettacolo il pubblico si è affollato attorno alle maschere (una buona mossa di marketing quella della compagnia) messe davanti al boccascena invitando le persone a fotografarle e instagrammarle (ormai viviamo per quello, se non posti allora non hai vissuto): oggi basta scattare per poi mettere sui social per far vedere che siamo stati presenti ad un’esperienza, soprattutto per far vedere agli altri assenti quello che si erano persi. Già.
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Fastidioso l’uso delle musiche come una sorta di riempitivo senza avere alcuna valenza drammaturgica, motivetti conosciuti orecchiabili nazional-popolari che sono sembrati più un’aggiunta, un innesto per arrivare a sera più che necessari e aventi una funzione reale, un’esigenza, un motivo.
Il tema poteva essere sviluppato, proprio per antitesi, con goliardia e in maniera grottesca, farsesca, spingendo sull’acceleratore, sfidando tabù culturali e religiosi, invece siamo rimasti bloccati in alcune fotografie, scene e quadri blandi.
Ci aspettavamo qualcosa di irriverente, leggero sì ma allo stesso tempo anticonformista.
Non abbiamo rilevato tracce né di poesia (ripensando alla defunta Szymborska) né giocose di divertimento.
La Taffo, l’agenzia di pompe funebri dalle pubblicità controverse, è infinitamente più beffarda e iconoclasta.
In teatro, come nella vita, un pareggio a reti inviolate è una sconfitta.
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