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Ai tempi del DAMS, ricordo che Čechov fu uno dei primi autori che approfondii in vista dell’esame di Drammaturgia. Ciò che mi colpì in modo particolare fu la caratterizzazione dei suoi personaggi: anime sospese tra passato e futuro, incapaci di vivere davvero il presente, intrappolate in un eterno circolo di rimpianti e attese. Questa loro condizione mi affascinò e, allo stesso tempo, mi spinse a riflettere su un tema che sentivo vicino: anche io, più volte, mi sono interrogato su quanto sia difficile vivere pienamente l’istante, senza farsi trascinare dai ricordi o dalle aspettative.
Sabato 11 gennaio 2025 ho partecipato all’intera Maratona Čechov a Bologna. È stata un’esperienza intensa, tre spettacoli consecutivi che hanno esplorato il mondo di Čechov da diverse prospettive. Tra Il Gabbiano, Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi, ho scelto di parlare del primo spettacolo perché racchiude molte delle tematiche centrali del drammaturgo: l’amore e la sua assenza, la ricerca di un senso nell’arte, il fallimento e il tempo che scorre.
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Nella prima tappa del progetto curato da Leonardo Lidi, Il Gabbiano, lo spettatore viene immerso in una storia che non si limita a raccontare vicende personali, ma solleva interrogativi più ampi. Il tema dell’amore e delle sue contraddizioni si intreccia con le aspirazioni artistiche dei personaggi, mostrando un teatro che diventa specchio della vita.
Scritta nel 1895, la pièce fu definita dallo stesso Čechov un’opera contro le convenzioni teatrali. Lidi ne coglie lo spirito portando in scena un dramma che esplora le tensioni tra Simbolismo e Realismo. Il risultato è uno spettacolo che non si riduce a un esperimento formale, ma lascia emergere la realtà dei sentimenti e delle relazioni umane. Il regista invita a riflettere su cosa significhi oggi raccontare una storia e quale ruolo possa avere il teatro nel dialogo con il pubblico.
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Il Gabbiano affronta una questione cruciale del teatro contemporaneo: la forma rischia di prevalere sul contenuto, creando un distacco con il pubblico. Lidi mette in evidenza questo problema, chiedendosi se il teatro possa ancora parlare a tutti o se sia diventato un linguaggio destinato a pochi. Il giovane e tormentato scrittore Konstantin Treplev, alla ricerca di un nuovo linguaggio teatrale, e il celebre romanziere Boris Trigorin, più incline a rimanere all’interno di codici narrativi tradizionali, incarnano il dilemma dell’artista: innovare a ogni costo o rimanere fedeli a un linguaggio comprensibile? Il teatro deve trovare un equilibrio tra sperimentazione e comunicazione con il pubblico, evitando di cadere nell’autoreferenzialità.
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Il parallelismo tra società e palcoscenico, tema centrale del Progetto Čechov, emerge con forza: madri attrici, figli inquieti, drammaturghi in crisi e spettatori annoiati si muovono in una realtà che riflette quella fuori dal teatro.
Uno dei momenti più suggestivi dello spettacolo arriva con l’inaspettata esecuzione di La Bohème di Aznavour. La canzone, con la sua malinconia, aggiunge un nuovo livello di lettura alla scena. La musica trasporta i personaggi e il pubblico in un passato che sembra distante ma mai del tutto svanito, richiamando il tema della nostalgia e del tempo che cambia tutto. È un momento semplice ma efficace, che amplifica le emozioni e sottolinea la profondità dei legami tra i personaggi.
Lidi consegna al pubblico uno spettacolo che non è solo una rilettura di Čechov, ma anche una riflessione sul teatro stesso. In un’epoca in cui la ricerca della novità rischia di oscurare il valore delle storie, Il Gabbiano pone una domanda essenziale: il teatro deve seguire la tendenza del momento o rimanere un luogo in cui la vita viene rappresentata nella sua complessità?
Uno spettacolo che stimola il pensiero e conferma la capacità di Čechov di parlare ancora al presente.
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