.
L’incontro che ha preceduto lo spettacolo Bianco, giovedì 6 marzo al Circolo Ricreativo “Casa del Lavoratore” di Bussecchio adiacente al Teatro Piccolo di Forlì, si è rivelato parte dell’opera: un prologo guidato con sapienza, misura e partecipazione da Margherita Favali.
Non un semplice momento introduttivo, ma un’apertura drammaturgica, un tempo condiviso dove si è potuta cogliere, o almeno sbirciare, la natura del lavoro artistico di Valentina Carli e Giuseppe Tantillo.
Si è delineata una sorta di prassi della parola, una concezione del lavoro teatrale in cui il dialogo non serve tanto a far avanzare la trama, quanto a mettere in movimento l’esistenza.
Il riferimento a Natalia Ginzburg, suggerito da Tantillo, pare rivelatore: una scrittura che non cerca la battuta fulminante né il colpo di scena, ma si affida alla conversazione come spazio poetico e politico.
«Il teatro di Natalia Ginzburg si può leggere (direi meglio, si può ascoltare) in tanti modi. È un teatro di conversazione, per quanto la definizione suoni inadeguata. Il «parlato» che la scrittrice riproduce è un dialogare quotidiano, per niente brillante. Frasi brevissime, molto spezzettate. Frequenti ripetizioni. Un vocabolario limitato alle parole d’uso comune» scrisse Gianni Manzella su il manifesto nei primi anni Novanta «Cosa vi accade veramente? Molto poco. Anche qui tutto accade altrove, tutto vi arriva molto smorzato. O forse quel che avviene, i “fatti” per Ginzburg sono proprio i rapporti che si creano fra quegli uomini e quelle donne»: è questa, credo, la cifra che Bianco ha scelto di incarnare, una parola apparentemente semplice, ma esatta e densa, come una lente attraverso cui guardare i propri rapporti con l’altro da sé, con il dolore, il tempo, la morte.
.
DIALOGO COME ARCHITETTURA
La parola si fa corpo, ritmo.
Il dialogo tra Mia e Lucio – i due protagonisti – costruisce lo spazio: è il linguaggio stesso a definire i volumi, i silenzi, le distanze.
Il teatro diviene luogo mentale, un interno abitato da tensioni, ironie, piccole crudeltà, momenti di struggente intimità.
Le parole costruiscono un’intera drammaturgia del tempo: avanzano, ritornano, si interrompono, si rincorrono.
Il ritmo non è mai neutro: è battito vitale, pulsazione dell’incontro.
La lingua di Tantillo è precisa, musicale.
Frasi brevi, scarti, ripetizioni e sincopi: la conversazione diventa non solo sostanza drammaturgica, ma anche architettura ritmica.
.
IMMAGINI APPROSSIMATE, PAROLE NITIDE
Le scenografie proiettate, a prima vista, risaltano per differenza: disegni stilizzati, contorni incerti, colori piatti.
Eppure questa apparente approssimazione è una scelta poetica precisa: laddove le immagini rinunciano a definire, la parola si incarica di costruire nitidezza.
O, almeno, di circoscrivere con esattezza un vuoto.
È un equilibrio delicato, ma netto: l’astrazione visiva e le illustrazioni in apparente forma di schizzo liberano la scena da ogni vincolo documentaristico, mentre il realismo linguistico radica lo spettatore nella verità delle relazioni. Come se, in un mondo sfuocato, l’unico strumento per vedere fosse la parola.
In questo senso, Bianco è anche una riflessione sulla rappresentazione stessa: quanto può dire un segno? E quanto può significare una parola?
.

.
MALATTIA E ATTESA, NEL SEGNO DI BECKETT
Il cuore tematico dello spettacolo è la malattia.
Non come evento tragico o clinico: piuttosto come condizione esistenziale, come punto di rottura e disvelamento.
Mia e Lucio si incontrano in una zona intermedia – un ospedale, un non-luogo – e si parlano mentre attendono.
Non solo le cure, ma un destino.
Non è difficile pensare ad Aspettando Godot.
Come Estragon e Vladimir, anche qui i due protagonisti si parlano per non crollare, si punzecchiano, si distraggono, cercano un senso.
Ma dove Beckett usava l’astrazione, Tantillo scava nel quotidiano.
Mia e Lucio, come i due vagabondi beckettiani, sono figure della sospensione. Solo che al posto dell’albero secco, c’è una finestra d’ospedale. Al posto delle scarpe bucate, una percentuale di sopravvivenza a cinque anni.
E proprio nel dialogo, in quella relazione costruita nel tempo, si dischiude una piccola grazia. Il teatro non dà risposte: offre uno spazio dove le domande possono abitare.
.
TEMPO TEATRALE, TEMPO UMANO
Bianco è anche un’opera sul tempo. Non tanto nel suo fluire lineare, quanto nella sua natura percettiva, frammentata, vissuta.
Il tempo si ripete, si annulla. In questa riflessione, si innesta anche il senso profondo del teatro: forma d’arte impermanente, fatta per accadere una volta sola, per tornare mai identica a sé stessa.
È l’unicità dell’esperienza teatrale a rendere potenzialmente vivo ciò che avviene in scena.
“Gli occhi sono la prima cosa che si decompone quando si muore. Per questo bisogna riempirli”, dice Mia.
È forse, in estrema sintesi, ciò che in primis mi porto a casa, dall’incontro con Bianco: un incoraggiamento a riempire gli occhi, ad attraversare il tempo con vivezza, finché si può.
.