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Le vette innevate come le profondità degli oceani rappresentano sia mete fisiche reali che traguardi per conoscere e scandagliare gli abissi della nostra coscienza. L’uomo sta nella sua terra di mezzo mentre in alto le cime ci avvicinano a Dio, come Torre di Babele, e l’apnea ci mette in contatto con la nostra parte più buia e inesplorata. E’ il silenzio il collegamento tra le due situazioni, quel silenzio che difficilmente proviamo nel nostro habitat naturale, quel silenzio che ci conduce per mano in luoghi e anfratti nascosti del nostro Io. Riduttivo considerare questi elementi, sia la montagna che il mare, come esterni al nostro corpo: sono tramite e strumento per approfondire, studiarsi, porsi volontariamente spalle al muro per cercare di superare i nostri limiti, raschiando il barile nell’oblio dei ghiacci come nel respiro di bolle di un sub. L’alto e il basso, le estremità, complicate, difficili, impervie, per arrivare a sfiorare quel briciolo di divino che sta dentro ogni uomo. E quando sei in cordata o con le bombole sulle spalle l’ossimoro del toccare il vuoto, che sia l’aria rarefatta o quell’ammasso di acqua imprendibile dove fluttuare, è la migliore espressione per spiegare l’inspiegabile, per cogliere quella sensazione di sospensione fisica e mentale, quel tentativo fuggevole e fallimentare di riuscire a prendere ciò che fuggirà sempre dalle mani, che scapperà se solo tenti di afferrarlo: puoi solo guardarlo, introiettarlo, goderne con gli occhi della memoria, sempre sapendo che non puoi controllare quell’elemento nel quale sei ospite, sei inezia, ancora più fragile.
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Toccando il vuoto (di David Greig, prod. Infinito, Argot, Accademia Perduta) è la storia vera raccontata in un romanzo dal protagonista e scannerizzata e sezionata in tante scene come lame di flashback dentro una narrazione punk, ansiogena fatta di lampi, ritorni, scivolamenti temporali, incontri e incroci di sogno, allucinazioni in un impasto tra realtà e desideri, tra quello che effettivamente accadde all’autore e i suoi pensieri, ad un passo dalla morte, che trasformano lisergicamente ed inevitabilmente il vissuto. Tre amici (niente di rilevante attorialmente da sottolineare nella recitazione), incontratisi lungo il cammino nel solco dell’amore per la montagna (o meglio per la sfida a se stessi che rappresentano le vette inespugnabili), e la sorella di quello che fin dalle prime battute sappiamo, consideriamo e ci dicono che sia deceduto in questa scalata, tra gole e crepacci, tra ghiacciai e corde tagliate. Sembra di stare dentro un racconto di Messner o di Fogar oppure l’ancora polemica ascesa al K2 di Walter Bonatti. Sembra di respirare l’aria dei romanzi di Mauro Corona, o Le otto montagne di Paolo Cognetti come le sfumature delle pagine di Matteo Righetto. Il titolo regala una patina di depressione angusta e austera e non emerge speranza né tanto meno un forte senso di amicizia che, comunque infonde ogni scena, è latente ma non sembra mai sbocciare completamente. Lo potremmo associare ad un altro spettacolo generazionale come Cirano deve morire, visto sempre al Teatro di Rifredi, sia come immaginario che come atmosfere (la scelta delle musiche in questo è identificativa e lampante). Generazionale perché parla di motivazioni, del farcela, di successo e fallimento, di non mollare mai, di perseguire i propri sogni e illusioni, di sfidare quello che credi sia impossibile, che non è veramente finita prima che sia effettivamente finita, di non deprimersi, di non sprecare la vita, di non gettare la spugna quando i problemi sembrano insormontabili.
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La struttura alle spalle dei quattro (usciamo intontiti da quanto urlano tra fasi concitate e musica roboante) sono due triangoli tra tubi e plexiglass utilizzati per essere scalati in realistici movimenti evocativi. Le scene prendono vita in un accatastarsi di emozioni, sempre più pop e pulp, e di tempi che scavano e scalano nel passato o si proiettano nel futuro in un’altalena carica di pathos e agitazione, allarme, angoscia e apprensione, tutte spinte, forzate, evidenziate, rimarcate, estreme. Ogni quadro è un’apparizione, un’epifania, un ricordo lancinante da riportare a galla, come un thriller colmo di suspense, gesti e azioni, a ripercorrere i momenti e i movimenti della discesa, della perdita, della caduta, del lutto. Perché c’è il morto, esposto e dichiarato fin dall’inizio, un corpo che sappiamo fin dalle prime battute essere defunto, andando al rallentatore nelle pieghe del tempo per capire le vicende, addentrarsi negli angoli di quell’epoca vissuta miscelando realtà e immaginazione. La sensazione è quella di un’enorme pesantezza tra una lunghezza eccessiva (1h50′) che alla fine diventa ridondante e ripetitiva nel continuare ad analizzare l’accaduto cercando sinonimi. Ma ancora il meglio deve accadere e realizzarsi: dopo un’ora e tre quarti di congestionanti schiamazzi tra infortuni mortali e strazianti pianti, un’agitazione di respiro affannoso e un tappeto sonoro coinvolgente e tracimante, arriva il colpo ad effetto: Joe Simpson, il protagonista, l’autore del libro, non è morto come precedentemente narrato ma si è salvato grazie alla sua forza di volontà. Nell’essere contenti per lui, ovviamente, non lo siamo stati per la riuscita della pièce che costruisce e ordisce una fitta trama registicamente complessa (perde leggermente il centro gravitazionale, di Silvio Peroni) per poi, nelle battute conclusive, franare e liquefarsi, sgretolarsi e sfaldarsi come a dirci, in maniera brusca e troppo veloce, che quello al quale abbiamo assistito fino quel momento è soltanto invenzione, menzogna, illazioni. Un’ingegneria dialettica articolata che si sbriciola in una sorta di carrambata che non convince, di facile soluzione sensazionalistica della tv del dolore, come a dirci che il morto non c’è più, non c’è mai stato, facendo perdere credibilità al progetto e facendoci sentire beffati, delusi, ingannati, traditi, raggirati vista la convinzione (uditiva, di commozione, emozione, intensità) messa in atto e in campo. Troppo rapida la mossa per poterla digerire.
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