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Ha debuttato ieri sera all’ITC Teatro di San Lazzaro di Savena (BO) lo spettacolo Pseudologia fantastica del Teatro dell’Argine, in scena fino a domenica nell’ambito della Stagione 2024-2025. La creazione, il cui motore è la drammaturgia raffinata e rigorosa di Nicola Bonazzi (anche regista), affronta in forma teatrale il nodo complesso del rapporto tra testimonianza, identità e costruzione della memoria. Il testo si configura come una partitura serrata, fondata su un progressivo disvelamento narrativo che, con costante ambiguità, interroga il confine tra verità e menzogna.
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LUCE! LUCE! LUCE!
Il prologo dello spettacolo – dichiaratamente metateatrale – si apre con tre brevi citazioni (da Milan Kundera, Luigi Pirandello e Johann Wolfgang Goethe). Gli attori, posti frontalmente alla platea e ancora fuori dai rispettivi ruoli, esplicitano da subito la natura artificiale del dispositivo scenico. Questo espediente si rivela cruciale non solo come dichiarazione poetica, ma come atto critico che sollecita lo spettatore a prendere posizione rispetto al tema portante dell’intera opera: la verità come costruzione linguistica.
Tale apertura produce un effetto di straniamento che, lungi dal neutralizzare il coinvolgimento emotivo, lo potenzia, moltiplicando i livelli di lettura e attivando una ricezione più consapevole, in costante tensione tra immersione drammatica e distacco brechtianamente analitico.
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SPAZIO SCENICO E DINAMICHE PERCETTIVE
La scenografia contribuisce alla definizione di questa poetica. La stanza in cui si svolge tutta l’azione è spoglia, quasi neutra, ma costruita secondo una geometria volutamente eccentrica. Le linee oblique, i tagli prospettici fuori asse evocano suggestioni espressioniste che orientano la percezione verso un senso di perturbante instabilità.
Il luogo scenico diventa così uno spazio mentale, un’estensione simbolica della memoria incerta del protagonista. Il realismo visivo viene contaminato da elementi di minima deformazione che alludono alla fragilità della rappresentazione. Anche la regia partecipa a questa scelta formale, evitando qualsiasi enfasi musicale o luminosa: la narrazione si affida esclusivamente al ritmo verbale e ai piccoli spostamenti dei corpi nello spazio. L’unico intervento luminoso di rilievo – un cambio di luce alla finestra – rimanda alla sospensione beckettiana del tempo, evocando una realtà liminale, senza appigli certi.
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PAROLE CHE APRONO FAGLIE
Pseudologia fantastica è una drammaturgia della parola, in cui il dialogo non solo veicola informazioni narrative, ma si fa materia drammatica autonoma. Il linguaggio, nella sua densità e ambiguità, diventa il luogo stesso del conflitto.
Il testo è costruito secondo un preciso andamento diegetico: l’ingresso di un giornalista, apparentemente venuto a raccogliere una testimonianza di sopravvivenza alla Shoah, apre una sequenza di dialoghi che progressivamente mettono in discussione la veridicità del racconto. La struttura procede attraverso un meccanismo di crescente contraddizione, in cui le certezze iniziali vengono progressivamente erose. Ogni battuta contiene in sé una faglia: si moltiplicano gli indizi di una possibile mistificazione, fino al momento di svolta in cui l’intervistatore svela la propria identità e rovescia la posizione di potere nella relazione scenica.
Il dialogo si configura dunque come campo di tensione epistemologica, dove l’identità del testimone si dissolve sotto il peso della parola stessa. Il testo tematizza il rischio che la narrazione della memoria possa diventare finzione involontaria, autoinganno o costruzione patologica.
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IL RUOLO DELL’ATTORE E LA STRATIFICAZIONE DEL PERSONAGGIO
In questo contesto, l’interpretazione di Fabio Mangolini assume un ruolo centrale. La sua restituzione del personaggio di Giovanni è intensa, sfaccettata, calibrata. Attraverso variazioni vocali sottili, posture ambigue e modulazioni emotive progressivamente più complesse, Mangolini costruisce un personaggio sempre in bilico tra lucidità e spaesamento, tra sincerità e manipolazione, tra dolore autentico e strategia retorica.
Particolarmente efficace è la capacità dell’attore di far emergere, senza mai forzare il tono, il doppio registro del personaggio: da un lato la fragilità psico-fisica, dall’altro una lucidità affilata che insinua il dubbio sulla veridicità del racconto. La sua presenza scenica agisce come vettore interpretativo che amplifica le ambiguità testuali e interroga continuamente lo spettatore.
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STRUTTURA FORMALE E COSTRUZIONE SIMBOLICA
La struttura del testo è fortemente simmetrica. La prima e l’ultima scena dello spettacolo si aprono con la medesima battuta: “Piove?”. Un andamento circolare che non si limita a essere elemento formale, ma che suggerisce una condizione esistenziale irrisolta. Il ritorno all’identico genera un effetto perturbante: le parole sono le stesse, ma lo statuto di verità a cui alludono è stato irrimediabilmente incrinato.
Questa struttura a chiasmo assume una valenza simbolica: ciò che si chiude in apparenza, in realtà resta aperto sul piano interpretativo. Il cerchio della narrazione si ricompone solo superficialmente: permane un nucleo di indecidibilità che il testo si guarda bene dal sciogliere. L’oggetto-simbolo dell’elefantino di pezza – posto al centro del tavolo e illuminato nell’ultima scena – diviene metafora residuale della memoria: fragile, manipolabile, ma ancora visibile, ancora in scena, per un istante, anche quando tutto il resto è sprofondato nel buio.
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MEMORIA E INVENZIONE
Il titolo Pseudologia fantastica ha una rilevanza semantica cruciale. La pseudologia fantastica, in ambito psicologico, è una sindrome caratterizzata dalla costruzione di storie false alle quali il soggetto stesso finisce per credere. Il titolo, quindi, non è solo una suggestione evocativa, ma una precisa chiave interpretativa dell’intero impianto drammaturgico.
Il testo teatrale lavora proprio su questa ambiguità: il protagonista è un affabulatore inconsapevole? Un impostore? È manipolato dalla figlia? O è semplicemente un uomo che ha interiorizzato una narrazione al punto da trasformarla in memoria? Il teatro, come luogo della finzione che cerca la verità, si fa specchio di questa condizione, ponendo al centro dell’azione scenica la possibilità che la memoria sia sempre, in qualche misura, costruzione.
Cosa resta, allora, della verità, quando la memoria diventa racconto e il racconto – inevitabilmente – invenzione?
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