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Visto (o meglio: fatto? incontrato? condiviso?) nella loro casa-teatro tra le colline, in Valsamoggia, nell’ambito del progetto Finalmente domenica!, il nuovo accadimento del Teatro delle Ariette ha un titolo affatto programmatico: Noi siamo un minestrone [Imagine].
Un rito laico che congiunge la quotidianità del nutrire al mistero dell’invisibile, mettendo in gioco una teatralità povera, al contempo concretissima e smaterializzata, tesa a una rinnovata costruzione di senso.
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QUADRATO, TAVOLI, PENTOLE: LO SPAZIO COME GESTO
Il dispositivo scenico è minimale, quasi ascetico: quaranta spettatori disposti su un perimetro quadrato. Al centro, quattro tavoli bassi. Sopra alcune ciotole, utensili da cucina. Nessun odore, nessun fuoco acceso, nessuna cottura. Tutto è evocazione. Questo spazio, insieme raccolto e vuoto, funziona come soglia tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, tra presenza e immaginazione. È il “non-luogo” in cui, come direbbe Victor Turner, il teatro si fa rito: “una soglia tra stati, una zona d’indeterminazione, di possibilità e trasformazione”.
Ogni persona si trova immersa in una condizione al contempo ludica e politica, intima e condivisa: si è partecipi di un processo in cui la realtà viene sospesa per accedere a una dimensione altra, simbolica.
È qui che il Teatro delle Ariette, con la consueta delicatezza, riformula il gesto teatrale come atto relazionale, conviviale, comunitario.
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FAR FINTA DI È ATTO POETICO
Il gesto scenico si rapprende in una pratica elementare: mimare.
Versare acqua inesistente, tagliare verdure immaginarie, servire pane che non c’è.
Il pubblico viene coinvolto in una fila silenziosa. Una temporanea comunità che mentre “fa finta di” fa, letteralmente e laicamente, la comunione: si è per un po’ compagni, nel senso etimologico del condividere un (ancorché immaginario) pane.
Non gioco infantile, ma azione poetica che convoca la memoria, il desiderio, la possibilità.
Questo tipo di gesto rimanda fortemente a una linea dell’arte contemporanea che lavora sulla soglia tra presenza e assenza, visibile e invisibile.
In particolare, si può leggere una risonanza poetica e concettuale con Half a Room di Yoko Ono, installazione del 1967 in cui ogni oggetto domestico – letto, tavolo, sedia, tazza – è diviso a metà, lasciando l’altra metà al vuoto e, inevitabilmente, al completamento immaginativo dello spettatore. In quella mancanza si produce un intervento attivo da parte di chi guarda: l’assenza diventa forza poetica. Così accade anche nella creazione delle Ariette, dove ciò che non si vede – l’acqua, il pane, il minestrone – è ciò che si costruisce con l’immaginazione.
Allo stesso modo, la Piramide invisibile di Gino De Dominicis – un’opera del 1969 che si dichiara presente pur essendo impercettibile – diventa un ulteriore riferimento rivelatore. In questo paradosso si cela una tensione spirituale: l’arte come apertura al mistero, al non rappresentabile, al non tangibile.
Anche in questo accadimento delle Ariette il teatro si sottrae (in parte) alla concretezza per lasciarsi attraversare dall’invisibile. Il gesto diventa un varco, un’assenza che fa spazio al pensiero, alla memoria, all’immaginazione. Non è ciò che si mostra che conta, ma ciò che si attiva interiormente nel corpo di chi partecipa.
Il teatro torna così a essere, in senso profondamente originario, un atto iniziatico. Come nel rito, il segno visibile è solo superficie: ciò che accade davvero (il punctum, per dirla con Roland Barthes) è invisibile, trasformativo, relazionale.
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DEL NUTRIMENTO, DELL’INVISIBILE
In questo quadro, il gesto del nutrire assume una valenza profondamente simbolica.
La comunione, nella sua accezione più arcaica, è atto di condivisione del cibo e dello spirito.
Noi siamo un minestrone trasforma questo rito in una forma laica e poetica: il cibo evocato non sazia il corpo, ma nutre la relazione, il desiderio di appartenenza, la possibilità di un “noi” che si costruisce attraverso l’immaginazione e il tempo condiviso.
Il filosofo Emmanuel Levinas ha scritto che “accogliere l’altro alla propria tavola è il primo atto etico”.
Allo stesso modo, questa comunione teatrale mette in relazione ciò che è tangibile (il gesto del dare e ricevere) con ciò che è immateriale (la qualità dello stare insieme, il senso del condividere).
Una tensione mistica attraversa l’intero lavoro: diceva Meister Eckhart che “Dio è nel pane quotidiano più che nei miracoli”.
IRONIA E NOSTALGIA
Nel lavoro delle Ariette, l’ironia è una lente che smorza il patetico senza indebolire la profondità. Un’ironia tenera, auto-riflessiva, che attraversa i racconti autobiografici, le canzoni italianizzate, i ricordi di vita contadina. È una forza poetica che apre spazi di leggerezza dentro una riflessione esistenziale.
Allo stesso tempo, la nostalgia è un’altra chiave potente: non come rimpianto sterile, ma come impulso verso un’origine possibile.
Una nostalgia generativa, capace di evocare, come scrivevano nelle note, “quello che c’è prima delle parole e quello che resta dopo”. Una memoria dell’essenziale, della vita semplice, del gesto condiviso.
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GODOT, MALINA, BAUSCH: GENEALOGIE E AFFINITÀ
In Noi siamo un minestrone, tre figure fondamentali del teatro e della danza del Novecento si affacciano come presenze-sorgente: Samuel Beckett, Judith Malina, Pina Bausch. Non si tratta di semplici omaggi, ma di richiami profondi, radicati nella visione teatrale che le Ariette portano avanti da anni, e che qui si rinnova in una forma più rarefatta, smaterializzata, ma non meno potente.
L’eco di Aspettando Godot è forse la più evidente, e al tempo stesso la più sottilmente metabolizzata. Come nei personaggi beckettiani, anche nello spazio delle Ariette l’azione è sospesa, dilatata, rallentata. Si attende un minestrone che non sarà mai cucinato, come si attende Godot che non arriverà mai. Ma questa attesa non è vuota: è il luogo in cui si rivela la fragilità dell’umano, la sua nostalgia, la sua capacità di immaginare un altrove.
In Beckett, l’attesa è teatro dell’assurdo, ma anche spazio di poesia minima, dove ogni gesto – sedersi, alzarsi, parlare, tacere – diventa significante. Così, anche nella performance delle Ariette, l’elementarietà dei gesti mimati (tagliare, versare, offrire) assume un’aura poetica, carica di memoria e desiderio. Come Beckett, le Ariette raccontano il vuoto per lasciare che il pubblico lo abiti, lo attraversi, lo trasformi.
In entrambi i casi, il tempo è sospeso, l’azione è ridotta all’osso, e proprio per questo si apre uno spazio simbolico vastissimo. Si attende qualcosa che non accade, ma che nel non accadere diventa esperienza piena, compartecipata, viva.
Il secondo riferimento esplicito è Judith Malina, figura radicale del Living Theatre, che ha portato avanti per tutta la vita un’idea di teatro come atto politico, spirituale e comunitario. Malina vedeva il teatro come una forma di disobbedienza poetica, un gesto di resistenza nonviolenta, un invito al cambiamento.
Le Ariette condividono questa visione: il loro teatro è profondamente politico, perché costruisce comunità effimere, perché restituisce centralità al corpo e alla relazione, perché oppone alla violenza del mondo un gesto semplice, disarmato, essenziale.
Malina parlava di “teatro della bellezza e della verità”. Anche le Ariette, nella loro semplicità contadina e poetica, cercano una verità incarnata, relazionale, non spettacolare. Una verità che passa per il pane, per la voce che racconta, per lo sguardo che incontra l’altro. Una verità che, ancora una volta, si manifesta tra visibile e invisibile.
Il terzo riferimento è alla Nelken Line, coreografia simbolo di Pina Bausch, costituita di semplici gesti ripetuti, eseguiti da un gruppo in movimento. È un’opera coreografica di straordinaria essenzialità, in cui il quotidiano diventa gesto coreico, e il gesto coreico si fa coro visivo.
In Noi siamo un minestrone, questa dimensione è rappresa nel corpo-teatro di Paola Berselli: una coreografia dell’ordinario, un movimento che trasforma lo spazio in comunità poetica. Pina Bausch scriveva: “Non mi interessa come le persone si muovono, ma cosa le muove”. Le Ariette sembrano raccogliere questa lezione, portandola in una forma ancora più disadorna: ciò che muove è il desiderio di comunione, il bisogno di raccontarsi, la nostalgia di una semplicità perduta ma al contempo possibile.
IL MINESTRONE COME METAFORA POLITICA E COMUNITARIA
Il minestrone diventa così una metafora potente e concreta: mescolare ciò che c’è, senza gerarchie, senza esclusioni.
Un piatto umile, ma capace di generare una forma di “noi” a partire dalla diversità.
Come scrivono nelle note di regia: “Acqua e farina, nell’incontro, perdono le rispettive identità e ne trovano una nuova chiamata pane”.
È un gesto poetico e politico insieme: perdendo la separatezza, si guadagna una comunità.
È anche un invito: fare con quello che c’è, insieme, è già costruire un mondo diverso.
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UNA NUOVA DIREZIONE?
Noi siamo un minestrone segna, forse, una rinnovata direzione nel percorso delle Ariette: una smaterializzazione radicale dell’azione teatrale che mette in primo piano l’immaginazione come spazio di trasformazione.
Un teatro ancora più povero, ma più aperto.
Una sfida poetica che ci interroga su cosa significhi davvero “vedere” e “partecipare”.
C’è in questo lavoro una tensione nuova, forse una svolta: un teatro che, pur rimanendo profondamente incarnato nella biografia e nella comunità, si lascia esplicitamente attraversare dall’invisibile.
Con curiosità e attenzione seguiremo gli sviluppi futuri di questa ricerca, verso un orizzonte sempre più essenziale, sempre più misterioso: ciò che l’Arte, quando è tale, deve sempre perseguire, forse.
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