A 80 anni dalla Liberazione, il giornalista Lorenzo Tempestini e lo storico Enrico Iozzelli realizzano Ribelli. La Resistenza, l’Eccidio, la Liberazione di Prato, una serie podcast in sei puntate che ricostruisce la memoria della Resistenza nella città toscana, segnata da uno degli episodi più drammatici della lotta partigiana: l’impiccagione pubblica di 29 partigiani per mano dei nazisti, il 6 settembre 1944.
Prodotto dal Museo della Deportazione e Resistenza, Ribelli alterna testimonianze dirette, materiali d’archivio e analisi storiche, con l’obiettivo di restituire profondità e contesto al racconto della Resistenza, superando le semplificazioni e valorizzando le storie personali.
Il podcast è accompagnato da un album fotografico di Serena Gallorini e da una serie di presentazioni “a domicilio” proposte dagli autori nel mese di aprile.
Com’è nata l’idea di Ribelli e da quale urgenza?
«Ribelli – racconta Lorenzo Tempestini – è il nostro secondo podcast prodotto dal Museo della Deportazione e Resistenza di Prato. Il primo capitolo era dedicato alle deportazioni che partirono da Prato verso i campi di concentramento di Ebensee e Mauthausen, in seguito agli scioperi del marzo 1944, organizzati in molte città italiane. In occasione dell’80° anniversario della Liberazione di Prato, avvenuta il 6 settembre 1944, abbiamo sentito il bisogno di proseguire quel racconto con un secondo capitolo, stavolta incentrato sulla Resistenza e sulla Liberazione.
L’urgenza nasceva dalla volontà di trovare un linguaggio nuovo, capace di riportare al centro una vicenda che segna profondamente la storia della città: il giorno della Liberazione di Prato coincide infatti con il più grave eccidio nazista sul territorio, con l’impiccagione di 29 partigiani da parte delle truppe in ritirata, e poche ore dopo con l’ingresso dei partigiani e degli alleati che posero fine all’occupazione. Raccontare tutto questo oggi significa restituire memoria e voce a un momento decisivo, ma anche renderlo vivo e comprensibile per le nuove generazioni».
In un panorama saturo di contenuti sulla memoria, spesso anche retorici, qual è per voi l’elemento di rottura e originalità di Ribelli?
«Ribelli si distingue per la combinazione tra rigore storico e profondità umana. Da un lato c’è un’analisi storica accurata, non filtrata da ideologie, frutto del lavoro di studiosi e studiose che continuano a indagare quei giorni con metodo e attenzione. Dall’altro, ci sono le microstorie di chi ha vissuto quell’epoca da bambino o bambina: testimonianze vive, personali, che restituiscono un contatto diretto e spesso emotivo con gli eventi.
Questa doppia prospettiva permette di superare i toni celebrativi o retorici, offrendo un racconto più autentico e vicino. La storia documentata fornisce solidità e contesto, mentre le voci dei testimoni permettono un’immedesimazione profonda, rendendo la memoria più accessibile e concreta, anche rispetto alla storia studiata a scuola».
La serie si concentra su un’idea plurale di “Resistenze”. Cosa significa per voi questa prospettiva allargata e perché è importante oggi reinterpretare il fenomeno al plurale?
«A ottant’anni dalla Liberazione, pensiamo sia fondamentale parlare di Resistenze al plurale. È un modo per restituire valore e visibilità a tutte le forme di opposizione che hanno contribuito, in maniera diversa ma complementare, alla fine della dittatura fascista e dell’occupazione nazista. Non solo i partigiani armati sui monti, ma anche chi li ha sostenuti in silenzio, a volte rischiando tutto: i civili che offrivano rifugio o cibo, le donne che non furono soltanto staffette, ma protagoniste a pieno titolo della lotta armata, gli operai che sabotavano la produzione per ostacolare i tedeschi in ritirata, i soldati che rifiutarono di aderire all’esercito della Repubblica Sociale. Ognuna di queste scelte, spesso compiuta nell’ombra, ha rappresentato una forma di resistenza.
Raccontare questa pluralità oggi significa allargare lo sguardo, includere le storie ai margini e restituire complessità a un fenomeno che non può essere ridotto a un’unica narrazione. È un atto di giustizia storica, ma anche uno strumento per riflettere sul significato attuale della parola “resistenza”».
Con la progressiva scomparsa dei testimoni diretti, il racconto della Resistenza passa sempre più alle generazioni successive. Come cambia la narrazione storica attraverso le nuove voci? Avete scoperto prospettive inedite che vi hanno sorpreso?
«La narrazione cambia profondamente, perché i partigiani ancora in vita sono ormai pochissimi — a Prato, per esempio, ne restano solo due, entrambi presenti nel podcast. Oggi, a raccontare la Resistenza, sono spesso le voci di chi all’epoca era solo un bambino o una bambina. E questo sposta lo sguardo: la Storia si fa memoria dell’infanzia violata, di un’innocenza spezzata dalla guerra.
Intervistare queste persone, oggi anziane, è stato toccante e rivelatore. Mentre raccontavano, con una lucidità impressionante, episodi vissuti ottant’anni fa, la voce si incrinava, gli occhi si riempivano di lacrime. Segni evidenti di un trauma ancora vivo. Ed è proprio questo che mi ha colpito di più: il modo in cui quei ricordi, anche se sepolti nel tempo, continuano ad agire nel presente.
È impossibile non pensare ai bambini di oggi che vivono sotto le bombe, in altre guerre, in altri contesti: anche loro porteranno addosso queste ferite per tutta la vita. Ed è forse proprio attraverso queste nuove voci che la Resistenza può tornare a parlare al presente — come monito, ma anche come richiesta di empatia e responsabilità».

Che tipo di materiali avete raccolto per la realizzazione della serie e qual è stato il metodo di lavoro nella selezione e nell’ascolto delle fonti?
«Abbiamo lavorato su due fronti principali. Da una parte ci sono le interviste ai testimoni ancora in vita (fatte nell’estate scorsa): lunghe conversazioni, intime e spesso emozionanti, in cui abbiamo ricostruito non solo i giorni della Liberazione, ma anche il contesto quotidiano dell’epoca, visto attraverso gli occhi di chi era bambino o adolescente in quegli anni.
Dall’altra parte, ci siamo immersi negli archivi, grazie anche al supporto del museo e di realtà locali. Tra i materiali più preziosi c’è un’intervista realizzata da Enrico Iozzelli a Vinicio Becchi, partigiano che prese parte all’ultima battaglia prima della Liberazione della città. A questo si sono aggiunte altre testimonianze provenienti da archivi del territorio, spesso custodite su vecchie musicassette che abbiamo digitalizzato con cura».
Quali sono i fili tematici che attraversano le sei puntate e come avete costruito la narrazione?
«La narrazione si costruisce intorno a più fili tematici che si intrecciano lungo le sei puntate, con l’obiettivo di offrire uno sguardo ampio e critico sulla Resistenza e su ciò che ha lasciato in eredità.
Ripercorriamo l’evoluzione del racconto resistenziale dal dopoguerra a oggi, mettendo a fuoco come sia cambiata – e in alcuni casi semplificata o distorta – la memoria collettiva. Affrontiamo le diverse anime dell’antifascismo, con le sue correnti politiche e culturali, e dedichiamo ampio spazio all’analisi delle stragi nazifasciste in Italia, sottolineando come non siano stati atti di follia isolata, ma il frutto di strategie precise, pianificate.
Decostruiamo anche alcune delle narrazioni più tossiche e riduttive, come quella che tende a bilanciare le responsabilità storiche affermando che “anche i partigiani hanno fatto cose brutte”, cercando di restituire complessità e contesto ai fatti. Infine, grazie al contributo del magistrato militare Marco De Paolis, entriamo in una pagina spesso ignorata: quella del dopoguerra, della giustizia negata e dei lunghi silenzi istituzionali».
Chi è dunque il vostro ascoltatore?
«Ci rivolgiamo a un pubblico il più ampio possibile. Da un lato, a chi ha già una conoscenza della storia e cerca nuovi strumenti per approfondirla attraverso prospettive meno convenzionali. Dall’altro, alle nuove generazioni, che magari si avvicinano per la prima volta a questi temi e trovano nel linguaggio del podcast una chiave più immediata e coinvolgente.
In questi mesi, diversi insegnanti ci hanno scritto per raccontarci di come abbiano utilizzato alcune puntate in classe, integrandole nei programmi di storia. È forse uno dei riscontri più belli: sapere che queste storie riescono a entrare nella scuola e a parlare ai ragazzi con un linguaggio capace di accendere curiosità e consapevolezza».
Raccontare la Storia attraverso le micro-storie permette di dare voce a chi è rimasto ai margini della narrazione ufficiale e può generare un forte coinvolgimento emotivo, utile ad avvicinare al tema. Ma come avete bilanciato empatia e rigore storico, evitando il rischio di un’eccessiva emotività?
«Speriamo di esserci riusciti, intanto. Abbiamo cercato un equilibrio costante tra emozione e precisione, affiancando alle testimonianze personali un solido lavoro di ricerca storica. Emozionare, sì, ma senza mai forzare o semplificare».
Rispetto ad altri media, cosa rende il podcast uno strumento adatto per raccontare certi temi e storie? Qual è, secondo voi, la sua forza espressiva specifica?
«Il podcast ha una forza unica: crea un’intimità profonda tra chi parla e chi ascolta. È un mezzo che invita all’ascolto lento, personale, spesso emotivo. La voce, con le sue pause, esitazioni, sfumature, il lavoro fatto col sound design, le musiche realizzate da Tommaso Rosati restituiscono una dimensione umana e autentica che altri media faticano a raggiungere. In più, permette di intrecciare narrazione, archivio e testimonianze in modo fluido, lasciando spazio all’immaginazione e alla riflessione individuale».

Come si integra il podcast con il progetto fotografico che lo accompagna? Che tipo di dialogo si crea tra suono e immagine?
«Il progetto fotografico curato da Serena Gallorini nasce in parallelo al podcast e ne rappresenta una naturale estensione visiva. Ha ritratto i testimoni delle nostre interviste, restituendo ai loro volti la stessa dignità, forza e delicatezza che emergono dalle loro parole.
L’incontro tra suono e immagine crea un dialogo: da una parte c’è la voce, che racconta e commuove; dall’altra lo sguardo, che fissa nel tempo la presenza silenziosa di chi ha vissuto quegli eventi. Sono volti familiari, che potrebbero essere quelli dei nostri nonni e nonne, e che ci ricordano che la storia è fatta di persone comuni».
Ci sono letture, ascolti o visioni che vi hanno ispirato nella realizzazione di Ribelli? Cosa consigliereste a chi vuole approfondire questi temi?
«Abbiamo guardato alla grande letteratura della Resistenza come a un faro, in particolare agli scritti di Beppe Fenoglio, Italo Calvino e Cesare Pavese. Autori che hanno saputo restituire tutta la complessità umana di quel periodo: non solo l’eroismo, ma anche i dubbi, le paure, le scelte spesso laceranti di quei ragazzi che decisero di salire sui monti. Tra i testi che consigliamo, Il partigiano Johnny di Fenoglio è forse il romanzo più emblematico: crudo, disilluso, profondamente vero. Di Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno racconta la Resistenza con lo sguardo di un bambino, mescolando realtà e immaginazione con grande potenza narrativa. E Pavese, con La casa in collina, indaga il senso di responsabilità individuale e la crisi di coscienza di chi ha vissuto quegli anni in bilico tra azione e riflessione. Sono libri che non offrono risposte facili, ma aprono domande profonde — e forse è proprio questo il modo più onesto per avvicinarsi alla memoria di quegli anni».