Canini: comicità e pubblico old style

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I freddi numeri non vogliono dire molto ma danno un’idea dei contorni del fenomeno: 240.000 follower su Instagram, 162.000 su Tik Tok, 417.000 su YouTube, 286.000 su Facebook. Numeri da capogiro per il pisano Jonathan Canini che fin dal suo debutto ha collezionato soltanto sold out, riempito teatri e mandato in visibilio (aggiungendo ogni volta nuove repliche) migliaia di appassionati, soprattutto in Toscana. Soltanto due spettacoli all’attivo, Cappuccetto rozzo e questo Vado a vivere con me (visto al Teatro Puccini di Firenze, scritto insieme a Walter Santillo, prod. VegaStar, PRG), e già un grosso credito di pubblico a poco più di trent’anni. Siamo andati a monitorare, a certificare, a studiare da vicino, a controllare, a scoprire, a verificare con i nostri occhi questo campione d’incassi per soppesare la bontà del suo intrattenimento, delle sue performance tra la schietta comicità d’una volta e la stand up comedy che tanto va per la maggiore ultimamente. Un tempo, oltre quarant’anni fa, uscì la pellicola Vado a vivere da solo di Jerry Calà, stavolta quel con me finale, che sembra una questione lessicale di lana caprina, prende una valenza più profonda, come se il protagonista decidesse, finalmente, di convivere con se stesso, di formare un nucleo, una famiglia con la sua più profonda intimità, per scavare dentro di sé, per conoscersi, entrare nel mondo degli adulti, della consapevolezza. Il da solo dà l’idea della mancanza, in questo caso dei genitori, il con me è più una scelta soppesata, ponderata, gestita, responsabile: un gesto coscienzioso, ragionevole, meditato.

Ecco, tutte le righe precedenti sono state scritte prima di vedere effettivamente il prodotto, prima di sedermi per un’ora e mezza ad ascoltare Canini, che deve essere necessariamente talentuoso per essere riuscito a creare il suo brand di successo, che ci ha lasciato un grande vuoto sia a livello qualitativo dello show sia a livello dell’osservazione del pubblico. Partendo da quest’ultimo, sembrano che siano passati invano decenni sia di comicità che di contemporaneità; una platea, il giudizio non è certamente morale, piatta che rideva sguaiatamente a gag viste e riviste e che assomigliavano pesantemente al filone toscano dei Pieraccioni, dei Paci e dei Ceccherini e di tutta l’ondata di Aria o Vernice Fresca, e soprattutto che attingeva a piene mani all’eredità dei Panariello. Il punto nodale, il problema a nostro avviso, sembra proprio che il tempo si sia fermato per migliaia e migliaia di persone che, mentre il mondo si è capovolto e gli stravolgimenti culturali, lessicali, geografici, politici sono all’ordine del giorno, ricercano costantemente, meccanicamente una sorta di comfort zone, di oasi salvifica dove si parli sboccatamente toscano, quasi per rinsaldare le radici perdute e sentirsi, nuovamente ovattati dentro le piccole certezze di quel provincialismo senza aperture, all’interno di quel vintage sicuro che non considera che, nel frattempo, sono passati decenni e che là fuori il globo è stato stravolto, distrutto, ribaltato, rivoluzionato. Sembra di assistere ad una seduta spiritica, ad una estumulazione di un cadavere, agli ultimi ululati di una risata decadente, ad una cometa ormai svanita che fa ancora luce pur essendo morta milioni di anni fa ma che gli astanti ancora non lo hanno né capito né percepito oppure ne hanno consapevolezza ma preferiscono il buon usato sicuro al nuovo che avanza riproponendo vecchi retaggi e cliché invece che aprire la finestra e vedere l’aria (spesso comunque cattiva) che tira. Forse questa comicità così abusata e logora è una difesa, un’esorcizzazione, uno struzzo che mette la testa sotto la sabbia per non vedere le crepe della nostra società, un pararsi gli occhi rifugiandosi in qualcosa di comodo, docile, facile, semplice, commestibile, malleabile che non ci faccia troppo pensare né riflettere, che non ci faccia male, che non ci spinga in territori sconosciuti dove il pensiero può anche farsi spinoso e irto.

Dal palco arriva una leggerezza sbiadita ma le risate (esclusivamente di pancia) sono esagerate, sfrontate, sproporzionate nei confronti di quello al quale stiamo assistendo, sovradimensionate, ingigantite, smodate; ci chiediamo cosa possa cercare questo genere di pubblico che riempie queste serate ma che magari non occupa regolarmente le sale dei teatri. Canini è anche fresco e sul palco ci sa stare, è il suo habitat naturale, senza rete, senza appigli ma anche senza grandi slanci né novità, né contenutistiche né formali: l’utilizzo del video per mostrarci le reali riprese di se stesso da piccolo in versione casalinga (cose che fanno sempre smuovere una piccola commozione), escamotage inserito, soltanto negli ultimi tempi, teatralmente, nelle performance di Ferzan Ozpetek o di Rocco Siffredi. Perché il video supporta e toglie imbarazzi e costruisce un prodotto che sicuramente appare più curato e raffinato. Ma la sostanza non cambia. Soprattutto per quanto riguarda il titolo che se in primo momento sembra essere il fil rouge del suo ragionamento, ovvero il lasciare il nido familiare, poi perde attinenza, grip e coerenza finendo decisamente fuori tema tra aneddoti, curiosità, barzellette per rimpolpare un discorso che con il tema che avrebbe dovuto sviscerare non hanno alcuna connessione e affinità. Ma sembra che nessuno se ne accorga, che nessuno ci faccia caso, e tutto scivola placido e tranquillo verso il consuetudinario, verso la riproposizione di personaggi-stereotipo, di maschere o figure usurate. Il pubblico attende con ansia di risentire le stesse battute che ha visionato sul suo pc o smartphone, agogna quel momento nel quale somma l’esperienza collettiva del qui ed ora riportando alla memoria, contemporaneamente, anche l’attimo della scoperta solitaria, casalinga, personale. E’ un rimpolpare le fila, è un sentirsi a casa, è un respirare un qualcosa di familiare e conosciuto che non ci farà male, che ci lascerà sereni. E tornando verso casa, per strada ci ridiremo le stesse battute che già sapevamo a memoria prima di arrivare a teatro. E l’essere stasera qui, tra queste poltroncine rosse, è quasi un sottolineare un’appartenenza, una militanza, una frontiera tra il noi e il voi, forse tra i toscani duri e puri di una volta e il mondo là fuori che non sentiamo più nostro, che è sfuggito al nostro controllo, che non ci rappresenta più.

Un piccolo mondo antico, un borgo rimasto immutato nel tempo, una grotta rurale dove ancora lo zio lucchese è tirchio (diciamo che è un omaggio, almeno vocale, al bagnino di Panariello…), c’è lo sbandato del paese dipendente da qualche sostanza (un ossequio al dj di Panariello…), l’anziana del Sud trapiantata alle nostre latitudini. Si sente anche qualche vaga influenza da Francesco Nuti. Uno slancio, ormai anche questo già sentito in mille salse (qui senza una minima traccia, seppur ironica, d’analisi), sul politicamente corretto nel solco di una comicità che sottolinea l’oggi senza lo scarto che il sarcasmo dovrebbe sempre mettere in atto, quel gap che sposta, alza il tiro e ci porta ad un livello successivo con le chiavi, il lessico e il grimaldello dell’umorismo. Dopo tante divagazioni da repertorio lontanissime dall’andare a vivere da solo (l’Africano, l’Anticiclone, lo Zio, il Maranza, Pamela), si torna all’idea originaria ormai abbandonata da parecchio; e allora si cita la lavatrice e la spesa, l’affitto e le bollette come elementi cardine riconoscibili per ricongiungersi al titolo. Usciamo increduli, sorpresi, allibiti, sbalorditi, finanche basiti senza riuscirci a spiegare l’inspiegabile. Sempre nella traccia della tradizione toscana, avete mai visto il comico livornese Stefano Santomauro?

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.

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