Dire è fare. L’autobiografia come campo di forze in Autobiogrammatica di Tommaso Giartosio

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Tommaso Giartosio - ph Antonio Politano

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Ecco che, holdenianamente, ora che ho appena finito di leggere Autobiogrammatica vorrei poterlo chiamare, Tommaso Giartosio, che questo poderoso atto di denudamento attraverso il linguaggio lo ha scritto.

Ci ha pure vinto una quantità di premi, ed è stato anche finalista allo Strega, l’anno scorso, come ben ricorda la fascetta gialla attorno al libro, pubblicato per minimum fax.

Alle molte e ben autorevoli recensioni che si è finora guadagnato (le trovi QUI), aggiungo queste mie parole perché, lo voglio dire subito, questo è un libro che chiama in causa.

In cui la gran cultura di cui è intriso non si fa barriera, o piedistallo, o schermo, ma strumento di estroflessione e auto-esposizione, finanche di auto-analisi.

E, soprattutto, occasione di andare incontro.

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L’AUTOBIOGRAFIA COME CONTRATTO LINGUISTICO

«La pasta al forno con i peperoni era croccante quasi quanto la parola croccante, era untuosa come untuosa. Tu che leggi, pronuncia queste due parole a voce alta prima di proseguire, così sappiamo di cosa stiamo parlando. Fatto? Allora andiamo»: inizia così, Autobiogrammatica.

Incipit affatto programmatico: patti chiari, amicizia lunga.

E darsi da fare.

Questo romanzo mostra il suo farsi: 440 pagine che in divenire si fanno traccia di un pensiero (o mille pensieri) e di una vita (o mille vite, dell’autore e di noi che lo leggiamo).

La voce narrante non si presenta in modo trasparente, bensì performativo: fin da subito e ripetutamente invita a un’azione, condiziona la comprensione alla partecipazione, quasi a voler ribadire che l’autobiografia non è un’esposizione lineare ma un atto linguistico condiviso, un fare più che un dire.

In questa soglia d’ingresso si definisce già la postura del libro, il suo posizionamento (per usare un termine militante oggi in voga): né testimonianza né fiction, bensì riflessione in forma narrativa sull’impossibilità stessa di dire sé al di fuori del linguaggio.

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L’IO COME PRONOME MOBILE

Uno degli aspetti più evidenti di Autobiogrammatica è la sua messa in crisi dell’“io” come categoria stabile.

Giartosio non si limita a narrare il proprio passato, ma mette in scena le condizioni (personali, culturali) che rendono possibile (o impossibile) ogni narrazione del sé.

Attraverso un sapiente lavoro sul ritmo e la punteggiatura, la citazione e la digressione, il testo si costruisce come un dispositivo linguistico in cui il soggetto è effetto e non origine.

È anche, azzardo, una delle molte eredità della riflessione queer, per la quale ogni identità è costruita in primis nella relazione, nella variazione, nella performatività.

Giartosio si muove con destrezza tra i livelli della lingua, ne indaga le crepe, ne sfrutta le possibilità di scivolamento semantico: ogni parola (o quasi) diventa una struttura mobile, in cui l’identità non si dichiara, ma si negozia.

Non è un caso che in molte pagine termini apparentemente minimi, finanche banali, siano l’innesto di una riflessione esistenziale: di un io sempre in movimento, in scandaglio, in relazione.

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IRONIA E INTIMITÀ: UNA STRATEGIA DELLA VOCE

La sottile, persistente ironia, in Autobiogrammatica, non ha funzione decorativa, né è un semplice segnale di intelligenza autoriale. È piuttosto uno strumento di distanziamento e di prossimità, una strategia discorsiva che consente al testo di oscillare tra confessione e interrogazione.

È un’ironia che serve a prendere le misure del proprio racconto, e a mostrare al lettore che l’identità che si espone è sempre – felicemente – incrinata, scivolosa, talvolta ridicola. Ma mai patetica.

Giartosio non teme il paradosso: ride di sé mentre si prende sul serio, o viceversa. Il risultato è una voce che si costruisce per piccoli attriti tra i registri: l’alto e il basso, il pubblico e l’intimo, il filosofico e il corporeo.

L’ironia, qui, è la grammatica di una vulnerabilità coltivata. È un modo per disinnescare le trappole del narcisismo confessionale e per aprire uno spazio di vera relazione con il lettore. Un “tu” non idealizzato, ma convocato nel gioco linguistico.

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TIPOGRAFIA, GRAFICA, IMMAGINE: LA PAGINA COME CORPO

Oltre alla parola, Giartosio lavora sul supporto stesso della scrittura: la pagina si comporta come un organismo espressivo. Diversi elementi lo testimoniano: variazioni tipografiche, riquadri, spazi bianchi, fotografie, disegni a mano come frammenti di un sé non del tutto verbalizzabile, tracce che sfuggono alla logica del discorso.

Impaginazione come gesto semantico: Autobiogrammatica non si legge solo. Si guarda, si abita, come una stanza con angoli, sporgenze, scaffali.

È forse dunque plausibile mettere in ideale relazione Autobiogrammatica con il contesto delle arti visive contemporanee, non in termini tematici ma strutturali. Non solo parole usate come immagine, pur presenti, ma parole come spazio di esposizione.

In questo senso, è più proficuo il confronto con pratiche come quelle, ad esempio, di Sophie Calle, che ibrida testo e dispositivo relazionale.

Come Giartosio, Calle lavora sulla soglia tra confessione e costruzione, mescolando autobiografia, documento e performance. Nei suoi progetti l’identità si costruisce attraverso una rete di sguardi, risposte, interventi altrui: una “scrittura” che è sempre anche ricezione. Così anche in Autobiogrammatica, l’autore non si limita a raccontarsi, ma attiva il lettore come parte integrante del dispositivo autobiografico.

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AUTOBIOGRAFIA COME CAMPO DI FORZE

Scrivere un’autobiografia, oggi più che mai, significa attraversare un territorio lessicale già tracciato, dove le parole che crediamo nostre portano le impronte di altri: genitori, maestri, amanti, grammatiche interiorizzate, aspettative sociali.

Autobiogrammatica non tenta di occultare questa stratificazione, né di risolverne il paradosso.

Al contrario, lo espone con precisione e sapienza, trasformando il gesto autobiografico in un campo di forze, più che in una semplice narrazione.

In questo spazio di continua ridefinizione – fra presenza e rappresentazione, fra intimità e ironia – il soggetto non viene rivelato, ma costruito in tempo reale, come un “io” da verificare.

Per questo mi ritrovo – holdenianamente – a volerlo chiamare, Tommaso Giartosio.

Non per chissà quale questione capitale.

Per il puro piacere di continuare il discorso.

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