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C’è un libro che non si lascia leggere.
O meglio: che si lascia leggere solo se lo si attraversa come si farebbe con una soglia.
La pelle del mondo del collettivo Montag (composto da Niccolò Monti, Lorenzo Rossi Mandatori e Luca Tognocchi), da poco pubblicato da il Saggiatore, non offre una vera e propria storia, né un effettivo centro da cui partire o a cui approdare.
È una struttura vivente fatta di frammenti, una materia organica che respira al ritmo di molteplici voci.
Non c’è chi parla e chi ascolta. Tutti parlano. Tutti ascoltano. Forse.
Il testo si dispiega come un corpo esposto, vulnerabile, continuamente attraversato. E come la pelle — che non è solo superficie, ma luogo di scambio, di ferita, di memoria — anche il libro diventa un’interfaccia tra ciò che è interno e ciò che preme da fuori.
Ogni parola è porosa.
Ogni concetto una fenditura.
Non si tratta di afferrare, ma di farsi toccare.
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L’origine è un campo
L’origine non è un punto.
È un campo di forze.
La scrittura non è opera di una mente, ma gesto corale, simultaneo, in cui le singolarità si sovrappongono, si contraddicono, si attraversano.
La voce non è univoca, non si sistema in capitoli, non obbedisce alla progressione logica.
Scrivere insieme non è compilare un progetto comune, ma -azzardo- accettare che il pensiero prenda strade divergenti, che il senso nasca dallo scarto, dall’interferenza.
La simultaneità non produce sintesi, ma attrito.
In questo senso, La pelle del mondo non è un libro scritto.
È un libro che sta accadendo.
La pagina è il luogo di una continua collisione: tra linguaggi, tra corpi, tra visioni del mondo.
E in questa collisione non si cerca risoluzione, ma permanenza dell’aperto.
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Responsabilità del lettore
Qui si è chiamati non a comprendere, ma a comporre.
Come accade nell’arte ad esempio di Yoko Ono — dove l’opera è uno spazio di attivazione, di gesto, di risposta — anche in La pelle del mondo il lettore è costruttore, interprete, finanche performer.
Nulla è dato, tutto è da fare.
Fare, qui, non vuol dire costruire un significato definitivo: piuttosto sostare nella tensione tra i pezzi, accettare che il montaggio non produca chiarezza, ma domande.
È una logica che riecheggia la nozione di opera aperta teorizzata da Umberto Eco: l’autore non domina più l’insieme, ma prepara un campo di possibilità. L’opera diventa una macchina semantica incompiuta, un dispositivo in cui il fruitore ha la responsabilità di scegliere, collegare, perdere il filo, e ritrovarlo altrove.
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L’incompiutezza come forma di resistenza
L’assenza di una forma chiusa non è un gesto solo estetico: è postura politica.
La pelle del mondo resiste all’univoca coerenza, alla narrazione rassicurante.
Ogni frammento è un’interruzione. Ogni pagina una fenditura. L’incompiutezza si fa linguaggio: dice l’impossibilità di rappresentare l’esperienza nella sua interezza, ma anche il rifiuto di ricondurla a uno schema leggibile.
Non ci sono soluzioni.
Non c’è una tesi da dimostrare.
Solo una materia viva che pulsa, e che si sottrae proprio nel momento in cui si tenta di afferrarla.
La verità, qui, non si rivela. Si disgrega.
Una pelle, non un manifesto
Non resta che toccare.
Non capire, non risolvere: toccare.
Il libro si offre come pelle: superficie sensibile, spazio di contatto, archivio di tutte le pressioni.
Leggerlo significa esporsi.
Farsi attraversare.
E riconoscere che tra il dire e l’ascoltare, tra l’essere e il pensare, non esiste un confine netto.
Solo una zona intermedia, vibratile, sempre in bilico.
Una soglia.
Dove qualcosa accade. Dove qualcosa si scrive.
Ma solo se anche io, lettore, son disposto a farlo.
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Autori iniziatori de La pelle del mondo, vi ho ascoltato a Fahreneith, sorprendenti in cammino ….