Un archivio per generare futuro. Conversazione con Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola | Instabili Vaganti

ph Margherita Caprilli

 

Instabili Vaganti dischiude una soglia: vent’anni di teatro, ricerca, attraversamenti diventano un archivio digitale, accessibile a tutte le persone interessate.

Non solo memoria, ma un luogo in divenire «con web series teatrali, documentari e dietro le quinte» spiegano Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola «a cui è anche possibile abbonarsi versando una quota simbolica a supporto del progetto, e così accedere a contenuti inediti come video integrali degli spettacoli e film sperimentali».

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Il vostro archivio -azzardo- problematizza il tentativo di “conservare” la memoria di una ricerca artistica fortemente effimera come quella teatrale. Come avete affrontato, nella sua costruzione, il paradosso tra la durata dell’archiviazione digitale e l’impermanenza propria dell’opera performativa?

Anna Dora Dorno: Abbiamo accolto questo paradosso senza cercare di risolverlo, ma piuttosto di abitarlo. Il teatro, per sua natura, è effimero, ma ciò che resta – le tracce, i processi, le testimonianze, gli incontri – costituisce un racconto parallelo, vivo e stratificato. Non solo della nostra storia, ma anche della realtà in cui viviamo e dei suoi mutamenti. Il nostro archivio non intende cristallizzare l’opera, bensì riflettere il movimento che l’ha generata, la ricerca che la precede, le emozioni e le collaborazioni che l’hanno resa possibile. Elementi che spesso restano invisibili nel risultato finale, ma che ne determinano profondamente l’anima.

Potremmo dire che questo progetto è, in fondo, un organismo autonomo, in continua mutazione: un’estensione della nostra poetica e una narrazione più complessa e polifonica della nostra biografia artistica. L’archivio non “conserva” semplicemente il nostro passato, ma lo trasforma in un presente perenne, fruibile nello spazio virtuale, dove continua a generare nuovi incontri, nuove visioni.

Ovviamente siamo consapevoli che anche lo spazio virtuale è “impermanente”. O forse sarebbe più corretto definirlo “immateriale”: privo cioè dell’immanenza sensibile e condivisa dell’atto teatrale hic et nunc. Ma è proprio in questa tensione tra presenza e assenza, tra corpo e traccia, che il nostro archivio trova la sua forma e il suo senso.

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In un’epoca in cui, come scrive Derrida in Mal d’archivio, “l’archiviazione è sempre anche una forma di selezione e perdita”, quali criteri avete adottato per scegliere quali materiali includere e quali lasciare nel fuori campo?

Nicola Pianzola: La selezione dei materiali è stata, prima ancora che curatoriale, emotiva. Un gesto istintivo e necessario, che ha seguito la qualità e la coerenza dei materiali come entità autonome, capaci di parlare anche al di fuori del contesto per cui erano stati creati. Abbiamo privilegiato ciò che racconta non solo l’esito artistico, ma soprattutto il processo: video-diari, prove, momenti di ricerca e creazione, interviste agli artisti che ci hanno accompagnato lungo il cammino. Abbiamo voluto dare spazio a una pluralità di voci, a un racconto corale, inserendo, ad esempio, documentari realizzati da altri autori sul nostro lavoro all’estero, o opere trasmediali, come tracce musicali nate da nostri spettacoli che si sono poi evolute in qualcosa di diverso, autonomo, trasversale e trasdisciplinare.

A.D.D.: Ci siamo chiesti: Cosa direbbe questo frammento a chi non c’era? Non volevamo limitare l’archivio alla documentazione del prodotto finito, ma far emergere l’umano dietro l’opera. L’assenza – come ci ricorda Derrida – non è un vuoto, ma una forma diversa di presenza: ciò che è stato lasciato fuori campo, ciò che resta come traccia, continua a parlare. E l’archivio, in fondo, è sempre una costruzione incompleta, un atto di interpretazione che guarda al passato con uno sguardo rivolto al futuro.

Sempre riprendendo Derrida, l’archivio è al contempo rivoluzionario e tradizionale: caratteristiche che sentiamo profondamente affini al nostro lavoro, da sempre sospeso tra lo studio delle arti performative tradizionali – quasi un gesto archivistico in sé – e la loro riattualizzazione in chiave contemporanea, che implica sempre una componente trasformativa, sovversiva, a suo modo “rivoluzionaria”.

In questo senso, il nostro è un archivio in divenire, che continua ad accogliere materiali inediti, spesso mai pubblicati, e che vorremmo aprire anche all’uso delle nuove tecnologie. Pensiamo, ad esempio, a software con Intelligenza Artificiale integrata, capaci di “restaurare” materiali ormai deteriorati, restituendo loro nuova visibilità e valore, senza tradirne l’origine. Anche questo, forse, è un modo per abitare quella soglia fertile tra memoria e immaginazione.

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ph A. D. Dorno

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Guardando al vostro percorso ventennale, come si è evoluta la vostra concezione di “traccia” e “documento”? Il teatro, che vive nell’istante, può realmente lasciare tracce fedeli di sé?

A.D.D.: Secondo me non esiste ancora la possibilità di “conservare” fedelmente un’opera dal vivo, o il processo creativo che la genera. Tuttavia, esiste la possibilità di trasmetterne – attraverso un linguaggio “altro”, come il digitale – l’energia, l’urgenza e la tensione che hanno alimentato quel percorso artistico. È un’operazione complessa, perché implica sempre una trasformazione, una traduzione da un medium all’altro, e quindi una inevitabile reinterpretazione. Ecco perché spesso scegliamo di curare personalmente anche il materiale documentario, attraverso una regia dedicata, per restituire non una cronaca, ma una visione coerente con il progetto che vogliamo raccontare.

Le nostre tracce – visive, sonore o testuali – diventano più che altro documenti emotivi. Non vogliono restituire l’opera dal vivo, ma evocarne la presenza, oppure trasmettere un messaggio. La traccia, oggi, per noi è quindi come un’eco: non ripete, ma vibra nel tempo, creando risonanza in chi la incontra.

Questa concezione si è evoluta attraverso l’esperienza di progetti come Stracci della memoria, dove la ricerca sulla memoria individuale e collettiva si è tradotta in un archivio vivente fatto di corpi, gesti, racconti orali e materiali visivi. Non si trattava di registrare eventi, ma di trasformare l’esperienza in poesia scenica, costruendo un patrimonio da cui attingere e che potesse nutrire anche gli artisti che, nel tempo, si sono uniti a noi.

Con il progetto MEGALOPOLIS, la molteplicità delle tracce raccolte in giro per il mondo – interviste, improvvisazioni, riprese urbane ed estemporanee – ha dato forma a una drammaturgia transmediale, dove il documento è sempre filtrato da uno sguardo artistico e affettivo. In questo “kaleidoscopio di immagini in movimento”, la documentazione è diventata lo strumento per raccontare una pluralità di realtà, simultaneamente, in una dimensione tanto personale quanto globale.

Ma è stato con Beyond Borders che questa riflessione ha assunto una forma radicalmente nuova, profondamente legata al presente. Nato durante la pandemia come progetto virtuale, Beyond Borders ha raccolto testimonianze video di artisti da tutto il mondo, dando voce a chi era improvvisamente isolato, sospeso, ai margini, a chi stava vivendo o osservando situazioni di “cambiamento” come la rivolta sociali in Cile, per esempio e le relative reazioni di soppressione e oppressione politica per mantenere invece lo status quo. In particolare, lo spettacolo Lockdown Memory – che ha inaugurato il progetto e ne ha definito i principi fondanti – è diventata un’opera archivistica per eccellenza: un mosaico di materiali digitali, confessioni intime, contributi internazionali che restituiscono un archivio emotivo del tempo sospeso della pandemia e delle azioni rivoluzionarie che lo precedono. Non una cronaca, ma una traccia storica e poetica, che racconta l’assenza, il silenzio e i processi di resilienza attraverso la scena.

Quel lavoro ci ha insegnato che l’archivio può essere uno “spazio di resistenza”, luogo di creazione e testimonianza dell’invisibile. Non è uno strumento per fissare, ma per muovere, non per conservare, ma per rilanciare. In fondo, come ci ricorda Derrida, la traccia è sempre una soglia tra presenza e assenza, un punto di tensione fertile in cui la memoria si rigenera ogni volta che viene evocata.

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Il vostro archivio non si limita a raccogliere materiali, ma sembra voler offrire una mappa di relazioni e processi. Possiamo leggerlo come un’opera in sé, dotata di uno statuto ontologico autonomo, al di là della semplice documentazione?

N.P.: Assolutamente sì. Ogni sezione, ogni itinerario è pensato come un viaggio nell’universo poetico di Instabili Vaganti. L’archivio è già opera. La sua struttura dialoga con chi lo attraversa, innesca percorsi, domande, atti di creazione autonoma. Non vuole essere una teca da guardare ma una scena virtuale da attraversare.

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ph G. Chillotti

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Nei vostri progetti emerge un forte interesse per la stratificazione di linguaggi e culture. Pensate che l’archivio possa funzionare come dispositivo di traduzione interculturale, o piuttosto come evidenza transculturale?

A.D.D.: Lo immaginiamo come entrambe le cose. Come traduzione, perché rende accessibili codici e pratiche a pubblici diversi, raccogliendo materiali in varie lingue, tra cui tesi di ricerca, scritti, pubblicazioni e documentazione di sessioni di lavoro internazionali che evidenziano lo scambio interculturale e transculturale. Ma soprattutto, l’archivio rappresenta un attraversamento: i nostri spettacoli e progetti nascono dall’incontro di culture differenti. È uno strumento che testimonia processi e svela l’aspetto transculturale dei materiali, tracciando una geografia in continua evoluzione.

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In che modo l’esperienza di archiviazione digitale sta influenzando il vostro modo di pensare la creazione? Concepite già ora le vostre future opere anche in vista della loro archiviabilità o continuate a privilegiare l’evento irripetibile?

N.P.: C’è una nuova consapevolezza. Non pianifichiamo la creazione per l’archivio, ma la attraversiamo sapendo che lascerà una traccia. Questo ci stimola a documentare meglio, a sperimentare con linguaggi audiovisivi, a pensare alla dimensione “espansa” dell’opera. Ma l’evento irripetibile resta il nostro orizzonte. L’archivio è la sua eco, non il suo sostituto.

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Il vostro lavoro si è sempre situato su un crinale tra ricerca antropologica, centralità del corpo-teatro (per dirla con Nancy) e sperimentazione multilinguistica. Come immaginate l’evoluzione futura di Instabili Vaganti, in un panorama artistico globale sempre più dominato dalla realtà virtuale e dalla performatività digitale?

N.P.: Ci interessa esplorare il virtuale come territorio, non come simulacro. Il corpo rimane il nostro punto di partenza, ma può espandersi nel digitale, ibridarsi, moltiplicarsi. Lavoriamo già da anni con formati come la web serie teatrale, il film performativo. L’evoluzione sarà ibrida, ma mai disincarnata. Il rischio è perdere il radicamento. Il nostro compito è quello di abitare il digitale con lo stesso rigore con cui abitiamo la scena.

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In un’arte effimera come quella teatrale, dove ogni gesto tende a dissolversi nell’istante, come concepite il concetto di “durata”? È ancora possibile, secondo voi, parlare di permanenza, o si tratta piuttosto di un movimento continuo tra memoria, oblio e riattivazione?

A.D.D.: Per noi la durata è un processo. È ciò che resta nel corpo, nella memoria collettiva, nella trasformazione che uno spettacolo può innescare. L’archivio diventa allora uno strumento per riattivare, non per conservare in senso museale. Si tratta sempre di tornare a quell’istante che fugge, ma in un altro tempo, con un altro sguardo. Anche l’oblio è parte di questo processo, è essenziale per la creazione e definizione di un’opera, al processo di selezione dei materiali artistici, che compie in primis l’attore, poi il regista con il suo sguardo esterno e infine il pubblico stesso. Anche quello che viene trattenuto da una telecamera è frutto di un processo di selezione, ancor più se poi vi è un montaggio dei filmati registrati. C’è quindi una continua “perdita”, qualcosa che viene dimenticato e ricreato allo stesso tempo, trattenuto e disperso, potremmo parlare quindi di una impermanenza costante dovuta all’immaterialità sia dell’opera dal vivo che della sua traduzione in digitale.

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ph G. Chillotti

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Pensando al futuro: immaginate che il vostro archivio possa diventare anche uno spazio aperto a collaborazioni esterne, ad esempio trasformandosi in una piattaforma partecipativa di creazione collettiva?

N.P.: È un’ipotesi che ci affascina. Sarebbe bellissimo se artisti, studiosi, studenti potessero dialogare con il nostro archivio, farlo vivere oltre noi. D’altronde, ogni archivio è anche un invito a continuare a scrivere la storia. Inoltre, in assenza di uno spazio fisico, di una sala per la creazione, la ricerca e la produzione, dove far germogliare progetti e collaborazioni, lo spazio virtuale diventa, in questo momento, importantissimo per noi per mantenere le relazioni e le collaborazioni, non solo a livello internazionale ma anche sul territorio stesso.

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Nell’archiviare la vostra storia, avete avvertito un senso di compimento o, al contrario, l’urgenza di ripartire, quasi come se — parafrasando Gadamer — ogni atto di comprensione del passato generasse immediatamente un nuovo orizzonte di domande?

N.P.: È stato come aprire una ferita che non si chiude. Ogni frammento che ritrovavamo ci interrogava: “E ora?”. Non è stato un gesto nostalgico, ma propulsivo. L’archivio ha generato una nuova fase della nostra ricerca, nuove opere, nuovi linguaggi.

Tanto più in questo momento, in cui ci troviamo ad affrontare la perdita del nostro spazio di lavoro a Bologna a seguito della decisione del Comune di non rinnovare la Convenzione che, per quindici anni, ci ha permesso di gestire il LIV – Performing Arts Centre. Uno spazio situato in una delle periferie più “difficili” della città, da cui sono nati progetti come il TRENO Fringe Festival. Un luogo che non era solo fisico, ma che custodiva la nostra storia, la nostra identità, la nostra quotidianità creativa.

Archiviare, oggi, per noi è anche un atto di resistenza e rigenerazione: raccogliere le tracce di ciò che siamo stati per continuare a generare futuro, anche a partire da una mancanza.

Proprio da questa assenza è nata l’urgenza di creare un nuovo spazio, che si sta concretizzando in Appennino, a Savigno, grazie ai fondi FESR per le imprese creative della Regione Emilia-Romagna: un hub culturale estivo immerso nella natura, capace di coniugare ecologia e innovazione digitale, e destinato ad accogliere attività di ricerca, produzione, formazione e residenze artistiche.

Intorno a questo spazio – una cupola geodetica immersa nel verde – sorgerà un “bosco digitale”: un ambiente interattivo connesso al nostro archivio multimediale, in cui ogni albero potrà raccontare un frammento del nostro percorso. Un luogo che unirà memoria e innovazione, radici e futuro, presenza fisica e traccia digitale.

In fondo, ogni orizzonte che si chiude ne apre uno nuovo, e il nostro archivio è diventato la base su cui ricostruire, reinventare, ripartire.

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