Il prossimo 25 novembre, nel giorno che segna i quarant’anni dalla morte di Elsa Morante, debutterà al Teatro Julio Cortázar di Pontelagoscuro (FE) il nuovo spettacolo di Teatro Nucleo, che ha scelto di dedicare la sua ultima creazione a questa figura incandescente della letteratura del Novecento.
In questo progetto ho il privilegio di essere coinvolto nella funzione di dramaturg.
Da questa posizione obliqua – interna e al contempo laterale al processo creativo – ho dialogato con Natasha Czertok, regista dello spettacolo e interprete in scena assieme ad altre tre attrici: Lisa Bonini, Martina Mastroviti e Giovanna Latella.
Queste righe vogliono restituire qualcosa di un percorso in divenire: tracce della nostra ricerca condivisa.
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In quanto dramaturg, spesso in questi mesi mi sto chiedendo cosa significhi oggi mettere in scena un’autrice come Elsa Morante in un contesto teatrale erede di una pratica politica e comunitaria come quella di Teatro Nucleo: in che momento hai sentito che la sua figura — così irriducibile, così tragicamente lucida — poteva farsi materia viva e pulsante di una creazione scenica?
Non c’è stato un momento unico, né un’intuizione improvvisa, ma piuttosto un accumulo silenzioso, una pressione interna che a un certo punto ha chiesto forma. L’idea non è tanto fare uno spettacolo su di lei, ma partire dalla sua voce, dal suo sguardo sul mondo.
Nel mio lavoro teatrale cerco sempre uno spazio in cui il corpo, la voce e il gesto siano il vero linguaggio. Morante, in questo senso, è una sfida perfetta: la sua scrittura ha già una forza performativa, è viva, contraddittoria, piena di tensione. È un linguaggio che non spiega, ma interroga.
Il punto di svolta è arrivato quando ho iniziato a riflettere sulla voce femminile non solo come tema, ma come modo di stare in scena: non raccontare “le donne”, ma parlare da un luogo diverso, non addomesticato. Elsa Morante incarna esattamente questo. La sua voce attraversa l’infanzia, l’amore, la guerra, la fame, senza mai cercare una morale o una verità semplice.
Per me, la scelta di portarla in scena è un modo per creare uno spazio che tenga insieme poesia e realtà, verità e contraddizione. È un atto politico, oggi più che mai. Morante ci costringe ad ascoltare davvero, a rallentare, a non semplificare. E questo è anche ciò che chiedo al teatro: non spiegare tutto, ma abitare l’incertezza, fare spazio al mistero.
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Conoscendo la storia di Teatro Nucleo, da sempre radicata in un’arte che si immerge nel presente, mi colpisce la possibilità di guardare a Morante non come reliquia letteraria, ma come motrice di domande: quali tratti della sua vita e della sua opera risuonano in te in prima persona, come regista e attrice?
Quello che mi colpisce di più in Elsa Morante è la sua insofferenza verso ogni forma di compromesso. Scrive perché ne ha bisogno, con ferocia e serietà. Non cerca di adattarsi o di piacere, ma resta fedele a sé stessa, anche quando è scomodo. Questo è molto vicino al modo in cui vivo il teatro: non mi interessa rassicurare il pubblico o mettere le cose “a posto”. Cerco sempre un confronto vero, anche con le contraddizioni.
Mi riconosco anche nel modo in cui affronta il dolore. Non lo mette in mostra, ma nemmeno lo nega. Lo attraversa, e lo lascia filtrare in ogni pagina. È una forma di resistenza silenziosa, ma potente. Forse Morante “non si può recitare”, non si può rappresentare dall’esterno: bisogna lasciarla entrare, accettare che trasformi il proprio modo di stare sulla scena.
Un altro aspetto che sento molto vicino è la sua tensione tra il bisogno di far parte (della società letteraria, della famiglia, degli amici) e quello di restare in disparte. È qualcosa che vivo anch’io: ho un bisogno estremo degli altri (o meglio: della creazione in una dimensione di gruppo) ma ho anche bisogno di isolamento, di uno spazio di totale solitudine, in cui osservare e scegliere con libertà. Questo doppio movimento — essere dentro e fuori allo stesso tempo — è qualcosa che sento profondamente, sia come attrice che come regista.
E poi, c’è la serietà.
La serietà di Elsa Morante mi ricorda quella di mia madre, Cora, che è stata anche la mia maestra di teatro. Entrambe trattano la scrittura, il lavoro e le scelte artistiche con rispetto assoluto. Non cercano scorciatoie. Ogni gesto deve avere un senso vero, non essere una formula.
Morante scriveva: «Col sentimento avventuroso e quasi eroico di chi cerca un tesoro sotterraneo, egli dovrà ora cercare quell’unica parola, e nessun’altra, che rappresenta l’oggetto preciso della sua percezione, nella sua realtà […] È l’esercizio della verità, che porta all’invenzione del linguaggio, e non viceversa». Questa frase per me è centrale. Anche in scena, il linguaggio non si costruisce a tavolino: nasce dal bisogno di dire qualcosa di vero.
Lavorare su Elsa Morante significa per me mettermi in discussione. Lasciarmi interrogare da una voce che non ha mai scelto le vie facili. E cercare, attraverso il lavoro, di rispondere con la stessa onestà.
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A proposito di coralità, elemento caratteristico della storia del teatro di gruppo in cui Nucleo si inscrive: come intendi costruire, assieme alle altre tre attrici, una polifonia capace di restituire la voce multipla, febbrile, spigolosa e spesso contraddittoria di Elsa Morante?
Dai racconti sussurrati e pieni di mistero di Menzogna e sortilegio, alla lingua semplice e viscerale di Nunziata ne L’isola di Arturo, fino alle filastrocche infantili di Useppe e alle nenie di Aracoeli, la voce — intesa come parola viva, detta, fisica — attraversa tutta l’opera di Elsa Morante. È un modo di scrivere che si rifà all’oralità delle origini, alla parola che nasce dal corpo, dall’infanzia, dalla memoria. A partire dagli anni Sessanta poi questa scelta diventa anche politica: un modo per opporsi al linguaggio rigido, astratto e impersonale della cultura dominante, e per rimettere al centro l’esperienza, l’emozione, il non detto.
Credo che il filo rosso della voce sia centrale nella ricerca che stiamo affrontando. Siamo quattro attrici: una argentina di origine calabrese, una pugliese trapiantata a Bologna, una ferrarese e una argentina di origine polacca/russa/spagnola, nata in Italia. Vorrei poter valorizzare, interrogare questa diversità: penso che ci sia lì una qualità intrinseca, proprio per dare risalto alle diverse voci di Elsa.
Non partiamo infatti da un’idea unitaria di Morante. Anzi, il punto di partenza è proprio che non esiste una Elsa sola. La sua voce si contraddice, cambia direzione, si nasconde dietro il racconto e poi riemerge. In scena non vogliamo solo rappresentare “lei” come un personaggio, ma creare un luogo in cui queste tensioni possano vivere.
Il lavoro con le attrici parte da qui: ognuna porta il proprio corpo, il proprio ritmo, la propria esperienza nella relazione con un materiale che non chiede adesione, ma confronto. Non c’è una distribuzione gerarchica dei ruoli, ma un terreno comune in cui ognuna entra con il proprio modo di essere attraversata. La scrittura scenica si costruisce attraverso stratificazioni, ascolti reciproci, dissonanze che diventano parte del tessuto drammaturgico.
Non seguiamo un percorso lineare o biografico. Quello che ci interessa è il suono, il peso, l’attrito delle parole. Lavoriamo con voci che si sovrappongono, che si interrompono, che si rispondono senza necessariamente capirsi. Questo produce una coralità non “armonica”, ma viva. Una partitura in cui le fratture non vengono chiuse, ma valorizzate come elementi generativi. In fondo, anche Morante ha sempre rifiutato di aderire a una forma univoca. Cerchiamo, nel nostro piccolo, di mantenere questo spirito.
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Tra le tante anime di Elsa Morante, quella che più ci sta interrogando è la sua vocazione battagliera: una forza di opposizione viscerale, capace di scagliarsi contro ogni forma di potere, ideologia, compromesso culturale. Come intendi restituire in scena questa dimensione combattiva? E in che modo pensi che oggi, nel contesto di un teatro come il vostro questa insubordinazione possa ancora agire sul presente?
La sua combattività non è mai rivolta verso l’esterno in modo diretto. Non scrive contro qualcosa o qualcuno in particolare, ma contro ogni forma di falsificazione, anche la propria. È un conflitto continuo, spesso silenzioso, che si riflette nella precisione con cui ha vissuto la scrittura. Per me, questo è già teatro.
In scena, lavoriamo a partire da quella tensione interna, da quel tipo di opposizione che non cerca lo scontro ma lo attraversa. Il corpo, la voce, i silenzi: tutto è materia di questa resistenza. La combattività diventa una questione di presenza, di rigore, di attenzione radicale al senso. Cerchiamo un gesto che esponga un attrito.
Credo che oggi ci sia bisogno di questo tipo di voce. Una voce che non cerca consenso, che non vuole nemmeno convincere, ma che tiene aperto un margine di libertà. Il teatro, in questo, può ancora essere un luogo attivo. Non una rappresentazione della realtà, ma un’interruzione. Una soglia. Morante ci insegna che si può essere politici anche senza dichiarazioni, semplicemente restando fedeli a un pensiero che non si lascia ridurre.
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Fin dall’inizio della ricerca, ho avuto la sensazione che la scrittura di Morante chiedesse di essere attraversata più che rappresentata, incarnata più che interpretata, quasi fosse un campo energetico da abitare fisicamente, come accadeva nei riti laici del Living Theatre o nei corpi ereticamente esposti nella produzione pasoliniana. Attraverso quali vincoli e attenzioni la scena può diventare, per te, uno spazio di incarnazione?
Per me, la scena funziona quando smette di essere il luogo dove si “mostra qualcosa” e diventa uno spazio dove si attraversa un’esperienza. Questo comporta una certa disciplina: non si può portare tutto in scena, e non tutto può diventare gesto o parola. C’è una selezione costante, un lavoro di sottrazione che non è mai stilistico, ma funzionale a un ascolto profondo.
Il corpo non è un contenitore, ma un mezzo attraverso cui passa una pulsione. Questo richiede attenzione, ma anche disponibilità a lasciare andare i codici abituali. A volte è necessario perdere il controllo per arrivare a una verità più concreta. È lì che inizia l’incarnazione: quando la forma si lascia attraversare da qualcosa che la mette in crisi.
Questa è una pratica che ho costruito negli anni e che deriva da un’idea precisa di teatro come esercizio di presenza. Non si recita, si agisce. Lo si fa nella consapevolezza che ogni scelta ha un peso, che ogni gesto parla anche quando sembra non dire nulla. È un lavoro fatto di limiti, dentro i quali può accadere qualcosa che davvero ha a che fare con chi guarda.
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La quantità, molteplicità e frammentarietà dei materiali, la loro densità emotiva, ci stanno costringendo a procedere per accumulo e scarto, per stratificazione e omissione. Quali sono per te le principali difficoltà nel dare forma scenica a questa materia così contraddittoria, così poco addomesticabile, senza tradirla?
La principale difficoltà è quella di non cercare di “spiegare” Morante. C’è sempre la tentazione di rendere tutto più chiaro, più lineare, più accessibile. Ma lei stessa sfugge continuamente al tentativo di sintesi. La sua scrittura si muove per digressioni, per immagini che si accavallano, per toni che cambiano improvvisamente. È un pensiero che non si lascia chiudere in un contenitore.
Per questo, in scena, cercheremo di mantenere viva questa instabilità. Lavoriamo per frammenti, per approssimazioni. Il linguaggio scenico non è illustrativo: non deve spiegare ciò che è già detto, ma aprire nuove domande. Questo significa anche accettare il rischio dell’ambiguità, del non detto, dell’incompiuto.
Non è un esercizio di stile. È una questione etica. Se Morante ha passato la vita a sottrarsi a ogni semplificazione, tradurla in una forma troppo ordinata sarebbe un atto di violenza. Il nostro compito è quello di custodire quella complessità, anche quando diventa scomoda. Forse proprio allora nasce il teatro.
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Infine, come dramaturg ma anche come spettatore rispettoso della storia politica e poetica di Teatro Nucleo, ti chiedo qual è per te oggi il senso di restituire Elsa Morante al teatro, in un tempo segnato da semplificazioni tossiche: che cosa speri accada nella spettatrice e nello spettatore che uscirà da questo spettacolo? Come pensi si possa incontrare, senza ridurre, questa sua alterità?
Restituire Elsa Morante al teatro oggi è un atto di resistenza. Non solo culturale, ma anche percettiva. Morante è una figura che obbliga a rallentare, a stare dentro alla complessità, alle ambiguità, alle contraddizioni. La sua scrittura non consola, non offre scorciatoie, non accetta di essere “semplificata”. E proprio per questo, metterla in scena oggi significa creare uno spazio che si oppone alla narrazione fluida e uniforme.
Nel lavoro stiamo cercando di far agire Morante come presenza, non come oggetto. In questo percorso, la tua funzione di dramaturg ha un ruolo importante: porta un pensiero che si intreccia al processo creativo. Un pensiero critico e dialogico, che entra nel cuore della ricerca con domande, spostamenti, relazioni. apre connessioni, introduce altre voci, altre pratiche, anche da ambiti apparentemente lontani dal teatro.
Figure come Yoko Ono o Joseph Beuys, che ci hai portato, non arrivano certo come modelli, ma come presenze che aiutano a pensare: come si può rendere visibile un gesto interiore? Come far esistere sulla scena qualcosa che resta irrappresentabile? Beuys ci ha spinti a pensare il corpo e lo spazio come campi energetici, simbolici, politici. Ono ci ha mostrato che anche la fragilità può diventare un atto politico, se accolta fino in fondo. Questi riferimenti sono emersi nel confronto, non come citazioni, ma come strumenti di lavoro.
Quello che vorrei accadesse nello spettatore non è un’identificazione o una comprensione lineare. Mi interessa piuttosto che qualcosa si muova, che resti uno spazio aperto. Che chi guarda senta che non tutto può essere contenuto o detto, e che proprio in questa eccedenza ci sia qualcosa di necessario. Il teatro, per me, è ancora il luogo dove è possibile esporsi al non detto, al non risolto. Con Morante non si tratta di arrivare a una verità. Ma di restare accanto a una voce che non si lascia addomesticare, e che proprio per questo ha ancora molto da dire.
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