L’ex-Mercato San Donato di Bologna si trasforma in un edificio green e polifunzionale (parte 2)

L'inizio della demolizione

Questa è la seconda e ultima parte dello Speciale dedicato all’ex Mercato Sonato.
Qui per leggere la prima parte

Riscrivere la città

Istituzioni e realtà culturali oggi sembrano collaborare in stretta sinergia, a differenza della Bologna tra gli anni ‘70 e inizi ‘90 dei centri sociali, degli spazi occupati e della sottocultura. «Io me lo ricordo benissimo quei periodi – commenta Locascio – Bologna era attrattiva per giovani di tutta Italia proprio per la sua cultura dal basso. Oggi però cosa potrebbe succedere se le possibilità progettuali venissero lasciate in mano alle nuove generazioni? Non è più il periodo in cui Bologna è come Berlino, e l’amministrazione comunale si pone ora in aperto dialogo con le diverse realtà del territorio».

Forse è vero: viviamo in un periodo storico in cui le sensibilità sono cambiate e il dialogo tra istituzioni, arte e realtà culturali indipendenti è aperto e reciproco. Tuttavia, la Bologna “anarchica”, la Bologna della cultura dissidente, se davvero è scomparsa, si è conclusa per naturale decorso di un’epoca, o come risultato di un esercizio pervasivo delle amministrazioni? 

«Mercato San Donato poteva essere uno spazio occupato negli anni ‘90 afferma Ussardiperché c’era una sfiducia totale nelle istituzioni, a tal punto che arrivare a un dialogo era un compromesso a cui non si voleva scendere. Un atteggiamento che conferiva energia per esprimere quelli che erano i bisogni concreti di libertà. Oggi questo attivismo non è scomparso, ma quel che è cambiato è una maggiore fiducia nelle amministrazioni, che a loro volta hanno riconosciuto la necessità di collaborare con la cittadinanza». 

Ciò che appare di certo mutato è la percezione delle possibilità di fare cultura fuori dai circuiti istituzionali, dal momento che i bandi pubblici – siano essi comunali, regionali o europei – paiono garantire una distribuzione democratica delle risorse e dunque effettive opportunità. In parte è di certo così: l’alleanza tra istituzioni e “realtà dal basso” può dare esiti virtuosi, di cui Senzaspine ne è un chiaro esempio, e i finanziamenti pubblici possono rivelarsi delle ottime occasioni per lo sviluppo di varie progettualità, siano esse culturali o urbanistiche. Dall’altra, viene da chiedersi se i margini di autonomia e di libertà creative non si stiano facendo troppo stretti. 

«Sebbene ci siano i bandi per l’affidamento degli spazi rassicura Locascio le progettualità restano sempre libere: l’istituzione non impone alcun vincolo alla creatività. Solo guardando a San Donato, ne sono esempi il Casalone con RitmoLento o lo Sghetto Club; allargandosi alla città, si pensi invece a iniziative come Bologna Estate, che accoglie proposte variegate in spazi spesso alternativi».

Eppure, anche quando sono mosse da buone intenzioni, alcune politiche culturali rischiano facilmente di tradursi in forme di controllo e normalizzazione dell’arte e degli spazi pubblici, fino a strumentalizzare la cultura stessa: invece di essere valorizzata e arricchita, essa viene depauperata, assorbita e adattata al sistema, messa al servizio della costruzione di un immaginario urbano conforme a criteri e direttive cui le amministrazioni, per scelta o per necessità, finiscono per adeguarsi e sottostare. Dall’altra parte, le realtà culturali che scelgono di stare o sono già all’interno di certe dinamiche e logiche, posso davvero preservare la propria autonomia? 

«C’è bisogno di un’educazione civica e istituzionaleriflette il Presidente di Senzaspine – per raggiungere e mantenere alti gradi di libertà creativa e per fare in modo che il dialogo fra associazioni e amministrazioni non diventi solo un vuoto formalismo. Forse l’era delle occupazioni è finita, ma non deve spegnersi il fuoco che alimenta il cambiamento dal basso, perché è fondamentale per dare alle città un senso di vitalità e benessere sociale. Oggi ci troviamo in una nuova era e, nonostante le contraddizioni, sono fiducioso: l’armonia, in musica, è una mescolanza di consonanze e dissonanze. Le cose, dunque, per funzionare tra loro, non devono sempre andare l’accordo, c’è bisogno del conflitto. È giusto perciò seguire determinate regole, ma al contempo metterle in discussione ponendosi in reciproco ascolto fra soggetti coinvolti».  

Davanti a questo scenario, viene comunque da chiedersi come evitare, nel concreto, di cadere nelle trappole normalizzanti della politica e di cedere al rischio, tipico della società capitalista, di un’illusoria promessa di possibilità e riconscimento per tutti.  

«Come operatore culturale – risponde Ussardi – sto cercando in tutti i modi di contrastare certe derive offrendo quanta più cultura possibile e valorizzando l’identità di una comunità o di un territorio, allontanandomi il mainstream. La responsabilità sta quindi in chi oggi è operatore culturale, che deve avere la sensibilità di interpretare i bisogni del contesto in cui si trova, al fine di stimolare delle risposte adeguate. Nel mettersi poi in dialogo con le istituzioni, l’operatore ha il dovere di non abbassarsi a quei meccanismi che considerano l’arte un mero passatempo per i creatori e un intrattenimento per i fruitori. In tal senso, diventa importante promuovere la cultura del lavoro in ambito artistico e culturale, facendo in modo che fra istituzioni e realtà si venga a creare un circuito che garantisca il benessere, anche economico, di chi lavora nel settore. Le istituzioni sensibili sanno accogliere e riconoscere queste istanze e perciò è possibile collaborare in maniera virtuosa, come è accaduto a noi. È chiaro dunque che parte  delle responsabilità ce l’hanno anche le istituzioni a tutti i livelli, dalle amministrazioni di quartiere al Ministero, perché appena manca un tassello rischia di crollare tutta l’armonia di cui parlavo prima. Rispetto a Bologna sono fiducioso». 

La città è un mondo plasmato sul desiderio umano

«La città che dicono ha molto di quel che ci vuole per esistere, mentre la città che esiste al suo posto, esiste meno», scrive Calvino, aggiungendo che i suoi abitanti credono sempre di abitare una città che «cresce solo sul nome» senza accorgersi del reale impatto dei cambiamenti, quelli che ne potrebbero trasformare lentamente la sua natura.

 La rigidità delle logiche burocratiche che regolano l’assegnazione di risorse e spazi, porta a investire in progetti che rispondano a criteri spesso generici, standardizzati e omologanti. Quando un’amministrazione sceglie di affidarsi – e quindi dipendere – dai bandi europei, deve essere consapevole di aver imboccato una specifica e chiara direzione, complessa e delicata dal momento che può incidere profondamente sull’identità della città.

«Scegliere di affidarsi a finanziamenti europei commenta Ussardi è per certi versi coraggioso, perché queste risorse vengono investite sull’estetica della città andando ad assecondare il mai troppo celato desiderio di europeismo. Da operatore culturale spero che Bologna riesca a mantenere la sua identità. È legittimo il desiderio di alimentare un senso di appartenenza a un contesto europeo, anche per le garanzie che offre sul piano economico, amministrativo e sociale; ma da un punto di vista identitario è chiaro che la cultura suburbana che ha da sempre connotato Bologna oggi è in pericolo a fronte delle trasformazioni in corso: il centro è sempre più spersonificato, gli affitti si alzano…»

Diviene allora fondamentale interrogarsi sull’impatto e sulle implicazioni di certe narrazioni e delle conseguenti scelte. Come già dichiarato dalla Presidente Locascio, quello su Mercato Sonato è soltanto un micro-intervento all’interno di un macro-progetto di trasformazione estetica di Bologna, di cui si vede una chiara manifestazione nei numerosi cantieri sparsi per la città. 

«Di gentrificazione – commenta Locascio –  sentiamo parlare da ormai dieci anni. Il quartiere San Donato e il Pilastro sono pieni di case popolari e il nostro desiderio è quello di creare nuove centralità culturali fuori le mura: in questo senso, il pericolo di gentrificazione è scampato. Per quanto i rischi ci siano sempre, come amministrazione ci collochiamo in un chiaro quadro normativo di tutela dei quartieri e dei cittadini. I nostri sono interventi che tengono conto delle persone e delle loro sensibilità. Stiamo semplicemente costruendo una “Bologna 2”».

La riqualificazione di Mercato Sonato, a detta della Presidente, si pone proprio su questo “binario 2” che dovrebbe portare alla realizzazione della “bella copia” dello spazio di prima: «Resterà un polo culturale e un riferimento per la cittadinanza – rassicura Locascio – e il suo rinnovo non altererà il valore del quartiere sul piano economico, perciò non aumenteranno gli affitti. Oggi c’è tutt’altro modo di vedere l’urbanistica e laddove ci sono le possibilità, vanno colte: non si tratta di migliorie puramente estetiche, ma di un’ottimizzazione della fruibilità di un luogo e della sua vivibilità». 

I cambiamenti estetico-strutturali e la sospensione di alcune attività – necessari affinché le trasformazioni si possano attuare – restano comunque scelte che lasciano segni su un territorio e, in questo caso, su quartiere San Donato e sulla sua comunità. «La struttura del Mercato  spiega Ussardisarà diversa e asettica, lontana dall’urbanistica del quartiere. Tuttavia il nuovo edificio vuole essere una continuazione del nostro progetto decennale, tanto che lo definiscono “la futura casa della musica”. Ci auguriamo quindi che la sua anima possa essere mantenuta». 

Se «i luoghi li fanno le persone», come ricorda lo stesso Ussardi, essi si compongono anche di stati emotivi, affezione, bisogni e senso di appartenenza. La rassegnazione nostalgica che porta a dire “va bene, ma sarà comunque tutto diverso” può sembrare una forma di cieca e ostinata resistenza,  ma a ben guardare è anche un lucido riconoscimento della realtà, ovvero di una trasformazione che comporta la perdita di qualcosa.

«Per quanto ci riguarda – prosegue Ussardi – non sembra ci sarà uno spazio propriamente adatto all’Orchestra. Abbiamo chiesto che il soffitto della stanza inferiore sia il più alto possibile, ma non ci sarà la stessa condizione del precedente Mercato. In ogni caso, non ci mettiamo in contrasto a come è pensata la struttura ma – sempre se verremo selezionati e coinvolti in una fase di coprogettazione degli spazi – cercheremo di adattarli il più possibile anche alle nostre esigenze».

Parafrasando il sociologo David Harvey, quando parliamo di diritto alla città non si intende solo accesso a spazi e risorse, ma anche, e soprattutto, la possibilità concreta di trasformarla secondo le nostre esigenze. Una città, d’altronde, non è mai neutra: la scegliamo perché risponde a necessità intime, materiali, affettive, plasmandoci come individui; oppure, se ci cresciamo, influenza nel profondo il modo in cui viviamo, pensiamo, ci relazioniamo. «La domanda sul tipo di città che vogliamo – afferma il sociologo urbano Robert Park –  non può essere separata da quella sul tipo di persone che vogliamo essere, sui legami sociali che desideriamo, sui valori estetici che perseguiamo». Ancora una volta, dunque, non si tratta di porsi in opposizione al cambiamento — la metamorfosi è inevitabile, persino naturale — ma di restare vigili, attivi e critici di fronte alle trasformazioni e alle relazioni che si ridefiniscono, consapevoli delle loro implicazioni. Il rischio, altrimenti, è arrivare troppo tardi, ritrovandosi spaesati e arrabbiati per qualcosa che ci è stato tolto – quell’essenza identitaria che cerchiamo quando abitiamo un luogo – anche quando la sottrazione non è avvenuta con strani sotterfugi. «Non si deve mai confondere la città con il discorso che la descrive» avverte Calvino. «Eppure tra l’una e l’altra c’è un rapporto […] la menzogna non è nel discorso, è nelle cose».  L’ “inganno” in altre parole è sempre visibile, esplicitamente dichiarato: ce l’abbiamo sotto gli occhi. 

A fronte di un rimodellamento esteso di Bologna, dunque, collocare la particolare vicenda di Mercato Sonato dentro la complessità di un fenomeno generale, è necessario per porci un interrogativo fondamentale: che tipo di città stiamo costruendo (o stiamo lasciando costruire)? E se è vero quel che scrive Calvino, il “Virgilio” di questo scritto, che le città sono di due categorie, «quelle che continuano, attraverso gli anni e le mutazioni, a dare la loro forma ai desideri, e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati», in quale delle due si sta inserendo Bologna? E in quale invece vorremmo che si dirigesse? È mantenendo sempre viva questa tensione tra realtà e desideri, tra ciò che può cambiare e ciò che riteniamo necessario mantenere immutato, che risiede forse la possibilità di custodire e rigenerare il senso di un luogo senza tradirlo. 

L’identità d’altronde vive nella contraddizione e nel divenire, e quella di uno spazio pubblico o di una città è un complesso gioco di continue rinegoziazioni con i diversi soggetti che la abitano e la “vogliono”,  con i bisogni comunitari che mutano, con lo scorrere del tempo. La responsabilità verso uno spazio e il suo senso, allora, non può che essere collettiva e si esercita nel sano conflitto. I margini di manovra e di autonomia, fra resistenza e metamorfosi, vanno allora cercati nelle maglie lasche del tessuto che abbiamo tutti contribuito a ricamare.