A Lido Adriano, località più giovane e popolosa della provincia di Ravenna con circa 7.000 abitanti e un’età media di 37 anni, il 28% della popolazione è composta da immigrati provenienti da tutto il mondo, con comunità significative come quella macedone e albanese. In questo contesto dinamico e multiculturale nasce il Grande Teatro, progetto ideato dal regista Luigi Dadina, storico componente del Teatro delle Albe, realizzato in collaborazione con Ravenna Festival.
Cresciuto attorno al centro culturale CISIM, il progetto coinvolge scuole, giovani e cittadine e cittadini di ogni età in un percorso teatrale collettivo che intreccia diversi linguaggi artistici attorno a scritture che guardano a Oriente. Quest’anno è stata affrontata la Bhagavadgita, testo sacro dell’induismo, adattato dal drammaturgo Tahar Lamri e diretto da Dadina, che porta in scena un coro di 120 persone. Con le musiche originali di Francesco Giampaoli e i testi di Lanfranco Vicari, lo spettacolo debutta al CISIM (Viale Parini 48, Lido Adriano, Ravenna), l’1 giugno e replica il 2, il 6, 7 e 8 giugno alle ore 20.00.
Come e quando è nato il Grande Teatro di Lido Adriano?
Luigi Dadina: «Questo progetto affonda le sue radici nel 1996, con il debutto di uno spettacolo nella Scuola Elementare di Lido Adriano e con i laboratori all’Agorà, un centro di aggregazione giovanile dove abbiamo iniziato a fare teatro con gli adolescenti, insieme alla non-scuola del Teatro delle Albe. Nel 2022 ho poi proposto al gruppo di lavoro che nel frattempo si era formato e consolidato, il progetto del Grande Teatro. L’ispirazione viene da un mio viaggio a Buenos Aires, dove ho incontrato il teatro comunità, chiedendomi poi come poter portare questa pratica anche a Lido Adriano. Si trattava di trovare un modo originale e soprattutto adatto al contesto, dal momento che differiva da quello argentino. La nostra stella polare è stato fin da subito l’Oriente, che rappresenta il tentativo di un teatro capace di portarci verso territori inesplorati».
Dalla proposta iniziale, quali obiettivi avete perseguito e come avete sviluppato il progetto?
Lanfranco Vicari: «Inizialmente non sapevamo veramente che cosa facevamo. A guidarci c’era lo sguardo verso Oriente e il desiderio di mescolare diverse discipline artistiche, ma non sapevamo dove tutto questo ci avrebbe portato. Era di fatto una vera e propria scommessa. I primi progetti realizzati insieme a Gigio (ndr. Luigi Dadina) li abbiamo realizzati nel 2001, poi nel 2010 nasce il CISIM. Sono stati anni abbastanza furiosi perché c’era la necessità di trovare un modo di abitare Lido Adriano nella sua doppia natura: città di periferia in inverno, meta per le vacanze in estate. Io poi all’epoca avevo 26 anni e dovevo capire anche come fare effettivamente certe cose. Siamo partiti dunque da queste esperienze e dai precedenti progetti laboratoriali, in cui coinvolgevamo principalmente adolescenti. Pian piano e con l’avvio ufficiale nel 2022 del Grande Teatro al CISIM il gruppo di partecipanti si è ampliato a differenti fasce d’età. Inizialmente si trattava di persone che volevano affinare tecniche musicali o artistiche, ma poi a poco a poco la sensibilità verso il progetto complessivo è cambiata e ora chi partecipa lo fa per essere parte non solo di un percorso formativo personale, ma anche di un laboratorio creativo collettivo e comunitario».
Che comunità incontrate a Lido Adriano?
Luigi: «La nostra scelta iniziale è stata radicale: tutti possono partecipare, dai 0 ai 90 anni. Abbiamo coinvolto genitori e figli, collaborato con le scuole elementari e con Teranga, una cooperativa che lavora con i richiedenti asilo».
Lanfranco: «Non ci rivolgiamo quindi a un’età precisa, ma a chi si avvicina. Di fatto, dunque, non esiste una comunità fissa, ma cambia ogni anno. È una comunità che si crea e si ricrea attorno allo spettacolo. Chi vi assiste, spesso l’anno dopo partecipa: è uno scambio continuo, basato sulla fiducia e questo è un dato davvero rilevante per noi».
Francesco Giampaoli: «Partecipano infatti persone di ogni provenienza e professione: per esempio, quest’anno, il chitarrista è un professore di storia e la cantante, Jessica, da adolescente frequentava i nostri laboratori. Si crea così un senso profondo di appartenenza, perché si sente di star costruendo qualcosa insieme. Non è un progetto pianificato a tavolino, ma la naturale evoluzione di anni di lavoro sul territorio. I risultati, per quanto ci riguarda, sono andati oltre le aspettative: fin dal primo anno tutti gli scricchiolii che si notano durante le prove scompaiono al momento del debutto perché attori e coro riescono improvvisamente a respirare all’unisono, cambiando così la qualità dello spettacolo».

Prima avete indicato come stella polare l’Oriente. Perché lo sguardo è rivolto verso questa parte di mondo e come dialoga con la comunità di Lido Adriano?
Luigi: «Quando ho immaginato il Grande Teatro sentivo la necessità di aria nuova, guardando da un’altra parte ma al contempo a noi stessi. Potrà sembrare una banalità, ma Ravenna è una città che fin dalla sua fondazione guarda a Oriente, perciò si tratta anche di partire dalle nostre radici. Inoltre, Lido Adriano è una città di molti immigrati – qualche anno fa leggevo che qui si parlano oltre 60 lingue – e la maggior parte provengono o dal Sud del mondo o dal vicino Oriente. Tutte queste cose unite al desiderio di viaggiare verso terre sconosciute guidano il nostro lavoro. Ci immagino infatti come una tribù in partenza che, prendendo con sé quel poco che ha, sale su delle carovane entrando dalla porta, per andare a abitare ed esplorare zone che nessuno di noi realmente conosce».
Quali linguaggi mettete in campo e come si concretizza, dunque, il vostro Teatro di Comunità?
Tahar Lamri: «Il Grande Teatro si compone di due drammaturgie. La prima è sonora con le composizioni originali di Francesco. È la musica a fare da ponte tra Oriente e Occidente, mettendoci in relazione con i testi che decidiamo di affrontare, l’ancoraggio diretto fra una parte e l’altra del mondo. La seconda drammaturgia è quella legata al testo, che viene reso fruibile al pubblico “occidentale” – tra virgolette perché non amo queste etichette – e adattato alla messa in scena. Nel complesso, si tratta di una vera e propria sfida perché si tratta di arrivare a portare in vita un testo “altro”, proveniente cioè da un Oriente estremo e a noi culturalmente lontano. Il percorso per arrivarci si struttura in sei intensi mesi di laboratorio insieme alla comunità e il processo è simile al taglio della legna: non è l’ultimo colpo che la spacca, tutti i 100 colpi prima. Lo spettacolo è dunque solo l’esito finale e pubblico di un lavoro continuativo e costante con i partecipanti, persone di ogni età ed estrazione sociale che scelgono di essere parte del Grande Teatro.
Noi non siamo una compagnia teatrale, ma una realtà di persone che si riuniscono e decidono di fare comunità attraverso il teatro. Quello che si viene a creare qui è dunque molto diverso rispetto a quanto avviene in Argentina, dove gli abitanti di un quartiere si incontrano per riflettere insieme sulla propria identità e sulla propria storia. A Lido Adriano la comunità si costruisce quotidianamente da gennaio a maggio; poi qualcuno resta, altri se ne vanno, tutto cambia sempre. È una comunità atipica e il teatro crea il linguaggio affinché questa comunità si crei. Il teatro accomuna, non salva le persone, e il testo è un pretesto per incontrarsi».
Francesco: «Per rendere l’idea di questa comunità che si genera e cambia di continuo, il primo partecipò una ragazza afghana e decidemmo di proporre in scena un ballo tipico della sua zona. Andai quindi ad ascoltarne la musica e la trovai lontanissima dai nostri canoni. Mi ricordo che riuscire ad assimilare quelle sonorità è stato molto faticoso, e così per i musicisti è stato complicato cogliere le sfumatura ritmiche. Ciò che accade però, è che una volta assorbiti e imparati, certi elementi rimangono nelle composizioni successive. È come una lingua che si arricchisce e si rigenera, testimonianza di un percorso».
Rispetto al CISIM e alle sue attività, come si integra il Grande Teatro?
Tahar: «Il CISIM è uno spazio con una storia riconosciuta, specie nell’ambito musicale. Il Grande Teatro – con la sua identità in continua evoluzione – è possibile proprio perché abita un terreno ben connotato come il CISIM».
Lanfranco: «Di fatto il Grande Teatro rappresenta un riassunto dell’identità del CISIM. Cosa vuol dire guardare testi di rilevanza storica ma così lontano da noi? Significa creare una vertigine, guardare in alto, con una comunità come orizzonte. Il Grande Teatro questo orizzonte verticale lo crea e lo si percepisce subito, nel momento in cui una massa di persone decide di lavorare insieme per sei mesi guardando in alto. Questa è l’identità che il CISIM ha sempre cercato».
Entriamo nel vivo del testo affrontato quest’anno, Bhagavadgītā. Di che si tratta e perché questa sceltà? Che temi emergono?
Luigi: «Questo testo, per quanto mi riguarda, viene da Simon Weil. Lo propongo dunque al gruppo e attendo tutta l’estate un riscontro da Tahar perché il Bhagavadgītā è molto difficile. Racconta l’inizio di una battaglia tra due famiglie, i Pāṇḍava e i Kaurava, intrecciate fra loro, ma che arrivano a un inevitabile scontro perché la seconda intende usurpare il trono della prima. Bhagavadgītā ha come nucleo centrale il dialogo tra uno degli arcieri più importanti dei Pāṇḍava, Arjuna, e il dio Krishna: siamo dunque in un tempo sospeso della durata di 18 secondi, in cui il guerriero, prima di scendere in battaglia, viene assalito da dubbi e si chiede come può scendere in campo per combattere i suoi fratelli e cugini. Il dio gli risponde che in qualche modo farà, ma che la guerra è un suo dovere. Quando abbiamo letto tutti insieme questo grumo sanguinante del testo, noi e molti dei partecipanti siamo scoppiati in lacrime. La risposta del dio è tremenda e ci racconta quel che accade sempre in ogni guerra: si combatte, si uccide e poi, a posteriori, nasce un sentimento di ripudio verso la guerra stessa. È su questo nodo dunque che abbiamo lavorato».
Cosa vedremo dunque in scena?
Luigi: «Abbiamo affidato agli adulti il ruolo della famiglia Pāṇḍava, ai bambini quello del dio e agli spettatori quello dei nemici, che nel testo non si vedono mai perché sono oltre il fiume. Ci sono poi altri personaggi che animano la scena, dalla stessa Simone Weil a Ghandi. Nella scena finale parliamo di un altro tipo di devastazione, per avvicinare il tema a quanto accade sul nostro territorio, ovvero la terribile alluvione che ci ha colpito. La guerra diventa dunque quella per l’ambiente. Nell’arco dei sei mesi il mio lavoro è quello di mettermi in contatto con l’aura dei partecipanti e finché non la trovo non riesco ad andare avanti».
Luigi, nel comunicato stampa si legge che nel tuo lavoro con la comunità ricerchi “l’aura” di ogni partecipante e ti ci metti in contatto. Che significa?
Luigi: «È difficile da spiegare. Io credo che tutti noi abbiamo un’aura, ovvero qualcosa che brilla in noi, qualcosa che non è nè corpo nè anima. È il cuore che sta oltre il cuore, un elemento misterioso. Io cerco proprio questo mistero e, spesso, lo trovo. È un modo di entrare in connessione con l’altro, di creare un legame con tutti, nessuno escluso. E quando questo succede, si creano relazioni forti e inaspettate».
Rispetto al lavoro musicale, come avete lavorato in relazione a questo testo?
Francesco: «Ho mescolato le parole con elementi musicali disparati, da studi indiani a suoni contemporanei, fino a ispirazioni cinematografiche. Il mio non è mai un lavoro filologico sul testo, ma un tentativo di addentrarmi in un universo per poi lasciare tutto fluire in maniera naturale».
Lanfranco: «Io comincio dalle musiche proposte da Francesco. Quest’anno però è stato difficile trovare le parole giuste, perché il testo rischiava di essere ripetitivo, la spiritualità proposta è molto ampia e la musica era già narrativa. Siamo però riusciti a trovare un equilibrio tra suono e parola, inserendo anche nuove formule e questo è avvenuto in modo del tutto naturale. Quest’anno, inoltre, ci sono due novità: in scena mi alternerò con Sofia, una ragazza di 14 anni che segue il laboratorio storico del CISIM; e all’interno del mio testo ho inserito una parte metateatrale in cui metto in evidenza come questo 2025 sia la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo. In questi tre anni infatti non si è costruita solo una comunità di partecipanti, ma anche di operatori, la cosiddetta Brigata Artistica Solidale. In questo triennio abbiamo dunque capito che il progetto funziona e come farlo stare in piedi. Negli squarci della carne pianterò talee, dico nello spettacolo. Credo che nelle anime di chi è stato con noi in questi anni stiano crescendo dei semi che non abbiamo piantato noi, ma sono stati portati dal vento. Sta qui, penso, il futuro del Grande Teatro, il cui cerchio artistico si amplierà per accogliere nuovi bisogni e sfide».
A proposito quindi di futuro, a quali orizzonti guardate?
Luigi: «Il futuro non lo sappiamo, ma senz’altro il Grande Teatro continuerà. Come dice Lanfi (ndr. Lanfranco) il gruppo di lavoro cambierà e sarà tutto in divenire. La collaborazione con Spazio A, per esempio, è per noi molto importante: è un gruppo teatrale che, oltre alla sua attività ordinaria, ha deciso di sposare questo progetto e di lavorare insieme a noi. Mi sono dunque affidato molto a loro negli ultimi anni e spero dunque di lavorare sempre meno, per ovvi motivi anagrafici e perché credo sia giusto così. È quello che sta accadendo anche con figure come Sofia, come ha raccontato Lanfi. Insomma, sono le persone a guidare il futuro del Grande Teatro. L’immagine che porto con me e che ogni anno si conferma viene da Baudelaire quando dice “la tribù profetica dalle pupille ardenti ieri si è messa in viaggio portando con sé i suoi bambini”. Il carro degli zingari si guida in tanti e questo è importante rimanga tale per un teatro popolare e comunitario».
Lanfranco: «In quello che stiamo facendo c’è già il futuro del Grande Teatro. Noi non siamo una compagnia teatrale, il segreto è essere un collettivo artistico che ha deciso di porsi interrogativi sul senso e sulle modalità di stare insieme “facendo con le mani” delle idee. In futuro quindi ci sarà un collettivo più giovane, noi magari ci metteremo da parte e saremo solo degli organizzatori per mettere in campo delle competenze, ma siamo certi se ne svilupperanno di nuove. Il cambiamento arriverà dunque dall’interno e porterà qualcosa di nuovo».