Black Mountains di Teatro Ebasko: soglia, reliquia, visione

 

Ebasko: verbo antico, greco, senza passato né futuro.

Si coniuga solo al presente.

Significa “prendere forza”, “rinascere”, “diventare giovani”.

In un mondo che lega la giovinezza all’inesperienza e alla fragilità, la maturità alla solidità e alla saggezza, ribalta il momento in cui qualcosa comincia a vibrare, a irrobustirsi, a sentire che può esistere nel mondo senza piegarsi.

Questo è anche il tempo del teatro: un’arte che non lascia resti, non ha memoria se non nel corpo di chi c’era.

Come il verbo greco, il teatro accade solo al presente.

Black Mountains, ultima creazione della compagnia Teatro Ebasko vista il 24 maggio al Teatro Julio Cortázar di Pontelagoscuro (FE) nella stagione TOTEM di Teatro Nucleo, si presenta come un altare scomposto: immagini che si sovrappongono, suoni che si moltiplicano, corpi che appaiono e scompaiono come reliquie o spettri.

Mai fu la nostra vita così piena / di incontri, di arrivederci, di transiti / come quando ci accadeva soltanto / ciò che accade a una cosa o a un animale: / vivevamo la loro come una sorte umana / ed eravamo fino all’orlo colmi di figure” scriveva Rainer Maria Rilke evocando la densità dell’infanzia, grembo di immagini che non sono mai solo sogni, ma presenze.

Così è il lavoro di Ebasko: una stratificazione incessante di segni, linguaggi, materiali.

Le loro creazioni non costruiscono un mondo: ne abitano simultaneamente molti, sovrapposti, semi-trasparenti, interferenti.

Non a caso, la scena di Black Mountains è continuamente attraversata da doppiezze, da molti registri, da immagini sovrapposte, come se la materia stessa del visibile si facesse porosa.

.

,

Il barocco e la memoria: architetture inquiete

L’impianto visivo di Black Mountains è dichiaratamente barocco.

Non nel senso di uno stile decorativo, ma come tensione, come esasperazione dell’inquietudine che abita ogni superficie.

Le immagini scorrono – frantumate, deformate, moltiplicate – nel videomapping che plasma il fondale scenico come una pala d’altare in continuo movimento.

Black Mountains prende la scena e la spinge oltre la soglia del necessario. Ne fa un luogo pieno, come un altare smontato o una Wunderkammer che si dà in forma esplosa.

Ma è nella molteplicità sonora che questa costruzione barocca trova la sua piena espansione: la partitura è polifonica, una mescolanza di suoni elettronici, voci registrate, canti etnici, suoni d’archivio, toni arcaici e dialetti. Questa abbondanza che sfiora la saturazione è cifra e rischio insieme.

 

Allegoria e durata: il tempo scavato

Sotto le forme sovrabbondanti dello spettacolo, scorre una domanda silenziosa: che cos’è la memoria? In che modo l’arte – e in particolare il teatro, arte dell’effimero – può custodire un tempo che non sia solo presente?

Black Mountains si muove in equilibrio fra documento ed evocazione: il riferimento esplicito è quello alla Storia (e alle storie), ma l’esito è allegorico. Non si tratta tanto di rappresentare fatti, ma di costruire segni che rinviino ad altro, che restino opachi. Come nei lavori di Christian Boltanski o Anselm Kiefer, la memoria non è solo evocata: è sepolta, stratificata, dissimulata.

L’allegoria, qui, è la forma che assume la distanza. La montagna nera – emblema che dà titolo allo spettacolo – non è solo una massa geologica, ma un ostacolo della visione, un segreto impossibile da scavalcare.

È figura e ferita.

Da Agostino a Bergson, la memoria è sempre durata, tensione tra il tempo che passa e il tempo che resta.

Ma cosa resta davvero di uno spettacolo? Come può il teatro – nella sua natura precaria, orale, corporea – farsi dispositivo di archiviazione?

.

 .

Labirinto di segni

C’è un rischio intrinseco in un’opera come Black Mountains.

Quando i linguaggi si addensano – quando ogni scena porta con sé un carico di immagini, suoni, citazioni, apparizioni – il lavoro dello spettatore diventa ricompositivo: selezionare, lasciar perdere, ritrovare. Alcune traiettorie visive restano sospese, alcune tensioni tematiche si affievoliscono prima di articolarsi del tutto. Ma forse è proprio questa la struttura profonda del lavoro: un campo semantico poroso, che rinuncia alla coesione per aspirare a una forma di profondità.

E allora affiora una domanda, a tratti ineludibile: quanti livelli può sostenere una scena?

Al contrario, e insieme: cosa si perde nel cercare a tutti i costi la chiarezza? Cosa invece si guadagna nell’inquietudine, nell’intermittenza, nell’ambiguità?

Il teatro – quello che si muove tra l’immagine e il simbolo, tra il corpo e l’apparizione – non è sempre fatto per “dire”. A volte è un luogo dove l’eccesso diventa apertura, dove la sovrabbondanza non chiede comprensione ma disponibilità.

 

La montagna che ci abita

Black Mountains non propone una narrazione: la evoca, la disfa, la rimanda.

È un territorio da attraversare senza cartiglio, da abitare come si abita un sogno di cui ci sfugge la logica ma non la potenza.

L’azione scenica non indica un passato da commemorare, ma una soglia su cui restare in ascolto.

“Eravamo fino all’orlo colmi di figure” scriveva Rilke. Così sembra essere anche il teatro di Ebasko: un contenitore traboccante, un corpo teatrale che vive del suo non potersi dire tutto, del suo restare – come un’infanzia – inafferrabile.

Forse proprio nell’eccedenza che non chiude, nel contorno che sfuma prima di fissarsi si può aprire, per un istante, lo spazio fragile e duraturo della visione.

.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.