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Si respira ossigeno sulle spalle dei giganti se, come accade in questo caso, si dispone dell’alta classe e della tecnica indispensabili a compiere l’ascesa nonché dell’ambizione necessaria a tracciare nuovi percorsi di senso. È un’operazione drammaturgica preziosa, L’ultima domenica di agosto, al cui debutto abbiamo assistito presso il Teatro Verdi di Padova (produzione TSV – Teatro Nazionale), per la penna e la regia di Fulvio Pepe. Un testo rilevante per qualità ed efficacia di scrittura, pienamente originale ma liberamente ispirato a La potenza delle tenebre, opera teatrale in cinque atti firmata da Lev Tolstoj nel 1883. Una produzione nella quale nove ottimi interpreti raccontano il fosco intersecarsi delle vicende di tre nuclei familiari, percorrendo con il virtuosismo e la sprezzatura dei funamboli una corda sempre tesa tra commedia e tragedia.
Curatissime le scene di Alberto Nonnato, nelle quali i materiali e le cromie dialogano sapientemente con le luci di Oscar Frosio ed i costumi di Aurora Damanti. Una parete grossolanamente intonacata a calce, verde salvia scabro e ruvido, due finestre, pochi oggetti di arredo dalla stereometria nitida ed essenziale, metallo ceramica legno. È dentro questo interno contadino di meticoloso gusto fiammingo, nel quale tutto sembra misurabile ordinato e limpido, che ci appare Deva (Debora Zuin), quasi una novella Lattaia di Vermeer, seduta di spalle sotto la finestra di sinistra, china sulla fatica del suo lavoro, cardine femminile della scena e dell’edificio. Ne vediamo solo le spalle e la voce, indurita e piena di rancore per la frustrazione di essere stata per trent’anni schiava di un padre dal quale è fuggita, sposandosi, ma solo per diventare nei successivi dieci la badante del marito. La rabbia e l’insoddisfazione esacerbano ogni suo gesto e parola, è dura, furente. Le fa da contraltare il Nucci (Gianluca Gobbi), sulla destra, seduto sulla sua sedia impagliata, cardine maschile, padre, padrone e sposo, uomo brusco e rude, spesso violento, incurante della sciatica che lo affligge, alterna all’esser burbero una giovialità schietta. Con loro c’è l’Edolina (Ilaria Falini), figlia del Nucci, ha un ritardo mentale, parla e si muove cantando di continuo, è nel corpo di una donna ma spensierata e leggera come una bimba, candida innocente ingenua, alla continua ricerca delle carezze paterne. Due sequenze di pilastri, ai lati della stanza, evocano il portico della casa padronale e spalancano agli occhi dell’immaginazione la ricchezza, la roba, i possedimenti che il Nucci traguarda dalle finestre di casa, latifondi, pascoli, frutteti, orti, stalle. In lontananza sappiamo esserci il paese, la ferrovia, le tenute confinanti ed una vasta ma non meglio definita campagna padana anni Cinquanta, nella quale è stata trasposta la Russia di Tolstoj.
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Da questo altrove sopraggiunge con la sua indolente sfacciataggine il Denis (Leone Tarchiani), aitante fattore assunto come lavorante dell’azienda e personaggio chiave nel dare innesco al dramma con la sua, dalle donne, sovrastimata e animalesca vacuità, le sue brutali e pruriginose pulsioni. È accusato di aver deflorato la giovane Maria (Federica Sandrini) ma al contempo funge da prestante e focoso amante della Deva che, ossessivamente innamorata, cerca tra i suoi lombi un riscatto all’inutilità e alla fatica dei giorni. Proprio durante un amplesso entra in casa la madre del Denis, la Rina (Beatrice Schiros), vera stratega senza scrupoli che punta a sventare, di concerto con la Deva, l’eventualità di un matrimonio riparatore tra il Denis e la Maria, promosso invece dal fronte maschile composto dal Nucci e da Aram (Denis Fasolo), padre dell’intemperante giovinastro ma uomo dal canto suo devotissimo, infiammato dall’ardore di una fede semplice quanto granitica, che invoca la verità come unica strada di salvezza e parla per via di citazioni bibliche nel tentativo di evangelizzare un intreccio che non ha alcuna speranza di vedere la luce della caritas cristiana. Si sorride molto e spesso, mentre i dialoghi si susseguono a ritmo serrato, eppure la vicenda si fa via via sempre più cupa, specie allorquando il Nucci dichiara alla moglie l’intenzione di recarsi dal notaio per modificare il proprio testamento a maggior garanzia della povera Edolina. In pochi sguardi la Deva e la Rina si accordano per eliminare il Nucci e far diventare il Denis marito e padrone in un colpo solo.
Con l’aprirsi del secondo atto il nostro punto di vista ruota di centottanta gradi: vediamo la stessa parete ma dalla parte opposta, siamo all’esterno della casa, la muratura ora ha toni rossastri, sanguinolenti, la temperatura si è fatta rovente con il sopraggiungere dell’estate. La Deva cerca di tenere a bada il Denis ma non riesce a concepire e le voglie di lui non sembrano addomesticabili, anzi si fanno inconsulte al punto di andarsi a prendere l’inconsapevole Edolina. E mentre il frutto della violenza cresce nel ventre della casa, la Rina e la Deva progettano per l’ultima domenica di agosto il matrimonio della ragazza con un altro minorato della zona incapace di comunicare con frasi di senso compiuto, è il Modrich (Riccardo Livermore) figlio del Bronzo (ancora Gianluca Gobbi), proprietario terriero con il quale nel frattempo si è accasata la Maria, anche lei nuovamente e ripetutamente concupita dal Denis, che in uno slancio di romanticismo mistico le chiede un figlio da poter chiamare Gesù.
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La diarchia Rina-Deva serra i ranghi nello sforzo comune di lavare i panni sporchi del loro figlio padrone marito bambino capriccioso, di arginare e contenere la sua inconsistenza, coprendone le marachelle ormai troppo pericolose e troppo adulte. Le sue due madri organizzano dunque per e con il Denis anche l’omicidio del neonato. Sarà il vaccaro Ivan (Paolo Li Volsi), un pragmatico emigrato siciliano, a salvare il bimbo e a rivelarne l’esistenza nel giorno del matrimonio dei due ragazzi, disadattati ed infelici agli occhi di tutti ma in fondo gli unici puri, senza ombre, in grado di gioire davvero della vita e di dirle e di dirsi di sì. Ma la rivelazione della verità ormai non può più salvare nessuno ed al Denis non resta che chiedere istruzioni al padre su come fare ad ottenere il perdono dal Padre, quello con la lettera maiuscola, quello celeste. Senza dubbio Aram è il più titolato ad esprimersi in questa materia ed infatti è proprio lui ad amministrare personalmente la giustizia divina, somministrando al figlio il massimo castigo per tutte le sue colpe.
MARIA FERRONI
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