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Diffidiamo sempre delle trasposizioni dai romanzi al teatro: l’intimità della lettura interiore e personale, il contatto tattile e materiale con la carta che fruscia, il rapporto corpo a corpo che nasce e si instaura con i personaggi, quella nostra più profonda identificazione ima che attinge al subconscio. Ecco, tutte queste sensazioni è impossibile trovarle, provarle e trasporle nel pubblico, in un luogo condiviso con sconosciuti che, seppur al buio, devono mettere in correlazione i loro sentimenti, al pronunciare di una parola, al verbalizzare di alcuni toccanti momenti, con quelli che nello stesso momento stanno sentendo le stesse frasi ma senza essere sulla stessa lunghezza d’onda emotiva. Se poi trattiamo un autore controverso e provocatorio, sensibile e pungente, caustico e a tratti irritante come il francese Michel Houellebecq il gioco si fa ancora più complicato perché sentire pronunciati non soltanto alcuni termini ma certi stati d’animo, alcune visioni della vita a stretto contatto con gli altri può farci sentire giudicati e urticanti, irrispettosi, quasi vergognosi. In questo senso la lettura libera, la fantasia, l’immaginazione scevra da condizionamenti e senza pudicizie, mentre l’alta voce nell’agorà sacrale di uno spazio teatrale esalta, amplifica, ci fa sentire ogni crepa, ogni disarmonia dentro noi stessi, se vogliamo il teatro fa, paradossalmente, un’azione ancora più scavante, andando a cercare, psicologicamente e analiticamente, le ragioni, i germi e i semi della nostra inquietudine e scomodità nell’ascoltare e nel dichiarare perifrasi irte, fastidiose, imbarazzanti.
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E’ quello che è successo con Serotonina (prod. Teatro Nazionale di Napoli; visto al Teatro Mercadante), tratto dall’omonimo romanzo del 2019, che, grazie ad un Andrea Renzi (praticamente un monologo di oltre due ore, a tratti commovente nella sua perizia) che percorre in equilibrio il filo sospeso della caduta agli Inferi volontaria, ma senza alcun intento lamentoso di piagnisteo né tragicità, con la nonchalance di pennellate leggere ad affrescare l’ineluttabile senza drammi né commiserazione. Si potrebbe paragonare il protagonista di Serotonina (anche se i comunque ben portati 62 anni di Renzi mal si collimano con i 46 del ruolo che interpreta) al Meursault de Lo Straniero di Camus, entrambi indifferenti alle proprie sorti partendo da punti dissimili, il primo solo con se stesso, il secondo messo all’indice dal giudizio sociale. Il racconto di Florent-Renzi è un ricordare gli eventi, le vicende e gli accadimenti per portarci al punto di non ritorno, al cul-de-sac, alla strada senza via d’uscita nella quale ha scelto di infangarsi e impantanarsi. In questo limbo purgatoriale tutto virginale e candido, una scena che in prospettiva scende e s’incunea, a tunnel, a imbuto, a stringersi sul fondale come uno scanner, uno zoom per andare più a fondo, un microscopio d’indagine, dal quale ricorda (riporta al cuore) sulla poltrona o sul divano bianchi i gradini della scalinata che lo ha condotto sull’orlo del baratro, soltanto lui è un punto di colore, un verde su verde tono su tono, forse verde speranza forse verde Natura (un ritorno alla Madre), forse verde marcio in questa cronistoria di una putrefazione annunciata. Florent rievoca e riesuma la sua vita, placida, controllata, borghese, tutto sommato affabile, gestibile, favorevole e confortevole, agiata; di fondo però molti fattori lo turbano, lo agitano, lo preoccupano. La tensione emerge palpabile come pus, e diventa stress e violenza latente frustrata e repressa: la sua acredine verbale verso gli omosessuali, il suo nome, l’amministrazione, verso Parigi, la borghesia e l’ecologia, contro i grattacieli o il Giappone.
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Come una Via Crucis a cercare un successivo momento di stallo e difficoltà e confusione più potente del precedente, la ricerca della decadenza è intenzionale e spontanea, una sorta di espiazione, di lavaggio dei peccati, di autodistruzione per punirsi di un’esistenza blanda, fugace come neve al sole. I suoi amori (un’attrice silente incarna le varie figure femminili da lui invocate, contraltare non così urgente) ci appaiono come step, non tanto per giustificare la caduta quanto per avere un quadro più ampio di questo puzzle quasi inspiegabile con la logica. Le relazioni finite male, la depressione e gli antidepressivi (da qui il titolo che è fonte e foce del problema) e la conseguente impotenza, il licenziamento, l’amico suicida, la mancanza della vicinanza di parenti, interessi o progetti. Intanto il pubblico mormora, e tossisce agitato e travagliato, per una terminologia forte e diretta, franca ed esplicita. E’ la narrazione e la cronaca di un hikikomori (gli adolescenti nipponici che si rifugiano nella loro cameretta senza volerne più uscire) di mezza età che ha perso interesse per il mondo là fuori e vuole lasciarsi andare, cadere in un letargo, isolarsi cercando il fallimento nichilista, cercando forse qualcosa che lo faccia sentire vivo, che gli faccia provare dolore. Ma ormai è tutto anestetizzato. Serotonina è un contrappasso alla vacuità del nostro ozio pigro a lasciarsi vivere addosso. l’anatomia delle nostre esistenze che funzionano fin quando non riempiamo il tempo di appuntamenti che sul momento ci sembrano imprescindibili ma che poi riconosciamo essere soltanto palliativi alla noia, all’inutilità che avremmo provato se avessimo avuto quelle ore a disposizione per pensare realmente alla nostra vita vuota, a che cosa significhi vivere. Houellebecq è sempre un grimaldello, un piede di porco per sollevare il nostro Vaso di Pandora che ogni giorno tentiamo di silenziare affossandolo di nuove sovrastrutture, coprendolo con la cenere, cercando di annegarlo. Ma, lo sappiamo, siamo pentole a pressione e, in un modo o nell’altro, il malessere, il disagio e l’insoddisfazione (o il nostro sentirci sempre affetti dalla sindrome dell’impostore che vivono senza sapere la loro missione) da qualche spiraglio devono trovare il loro sbocco.
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