Che la realtà in cui viviamo sia plasmata dal conflitto, non è una verità che scuote. Con l’ecosistema mediatico che esplode di viralità e accessibilità, la conoscenza media delle guerre in corso, inteso come la cronaca quotidiana dei loro sviluppi, è forse ai massimi livelli storici.
Si gioca a fare la guerra sulle piattaforme, imbracciando fucili giocattolo persino durante le feste del paese, siamo circondati da ricostruzioni fittizie o verosimili del più drammatico e propulsivo motore della storia.
I podcast di storia, a tal proposito, sono al picco della loro popolarità, e apparentemente ne sappiamo tutti un po’ di più, conosciamo i fatti, siamo al corrente di.
Da questa parte di mondo, quella in cui lo spettacolo “A volo d’angelo” di Federica Cottini sta girando tra i palchi, la distanza dal conflitto è innanzitutto geografica. Di conseguenza, e paradossalmente, ma anche in virtù dell’immersione profonda in un’atmosfera guerreggiante, la distanza cognitiva dalla guerra è ancora più abissale.
Intendo dire che mentre veniamo informati, anche a discapito della nostra volontà, dei fatti bellici e delle conseguenti opinioni, e organizziamo marce per la pace, consumiamo prodotti audiovisivi costruiti su guerre contro virus e orchi – cioè variazioni dell’umano – restiamo in larga misura impenetrabili alla guerra, perché una siffatta cosa come la guerra non esiste.
Esiste la dimensione dell’umano che va in guerra, che ordina la guerra, che è ordinato alla guerra. Ma questo umano che diventa numero è distante, lontano, come il terreno stesso del conflitto.
Nello spazio di un teatro, la scrittura di Federica Cottini, ex-allieva della Scuola civica Paolo Grassi, riduce la guerra – di cui tutti presumiamo di sapere qualcosa – alla storia delle persone che l’hanno fatta, subita, ereditata. E cioè a tutto ciò che, gran parte degli spettatori, invece non sa, non conosce, non immagina.
“A volo d’angelo“, testo vincitore del bando “Binario vivo – Vite dimenticate” del Teatro Nuovo di Pisa ed. 2024, si discosta dall’esibizionismo della tragedia, resta crudo ma vivido, mai affettato negli inevitabili discorsi contornati di morte.
Al centro della drammaturgia Crazy Bosnian guy, una guida turistica a Mostar, nel sud della Bosnia Erzegovina. L’attraversamento è nelle strade e dunque nei ricordi di ciò che hanno ospitato, e cioè la terribile guerra dei Balcani che Crazy ha vissuto da ventenne.
Il primo merito della messa in scena è che questo personaggio è irresistibile. Riuscirebbe a vendere un ricordo di guerra in bottiglia come fosse un eau de parfum. Michelangelo Canzi è naturalmente simpatico, incarna perfettamente la faciloneria innocua dell’intrattenitore di professione. Con accento sbavato che mescola il linguaggio del trapper all’inglese maccheronico dell’esperienza turistica per eccellenza, crea un personaggio che subito si distingue per calore e vicinanza.
Con grazia e moderato lirismo, ne ricostruiamo le vicende passate, l’amore mai tramontato e tutto quello che è stato perso, sacrificato in nome delle vicissitudini di potere. C’è della precisione nella ricostruzione dello sfondo storico, ma senza che Cottini rischi l’effetto giornalismo a teatro o conferenza-spettacolo, complice anche una regia che punta su luci e suono su una scena con pochissimi elementi funzionali alle azioni del personaggio unico.
È naturale il tentativo del giovane ragazzo bosniaco di decifrare le ragioni degli orrori a cui la sua vita, quella dei suoi cari e di interi popoli, vengono costretti. È un atto spontaneo, forse incosciente, provare a ricondurre al raziocinio esplicativo, quello che è contro natura perché tende a una mortalità efferata e precoce, tra fratelli.
E in questa ricostruzione si innesta il secondo merito distintivo dello spettacolo, e cioè l’accorciamento immediato della distanza. Con la leva emotiva della storia del sopravvissuto, scevra di ogni apologia mitizzante, si possono toccare quasi tangibilmente le fasi di una cosa grande, troppo grande per rendercene davvero conto, come la guerra.
Se la domanda che si pone la drammaturga è sul senso della memoria e del ricordo, è invece forse sul futuro che va indirizzata la scommessa di un’operazione come “A volo d’angelo”. La guerra nei Balcani è stato il primo scossone nell’ordine europeo basato sulla risoluzione pacifica delle controversie internazionali dopo il secondo conflitto mondiale. I fautori delle guerre oggi ne hanno memoria, e così probabilmente una grossa fetta di pubblico.
Ma che ne è dei giovanissimi, per cui quella distanza è nuovamente accorciata, ora che alle porte dell’Unione Europea bussano altre riottose contese di potere? È a loro soprattutto che questo spettacolo va destinato.
Quello che sta accadendo non si può sciogliere con l’arte del racconto. Ma raccontare ciò che è e ciò che è stato con lo strumento teatrale è il miglior monito, e forse la più efficace diseducazione alla violenza di cui siamo in possesso.
Attraverso il freddo e il buio della sala, con i repentini picchi adrenalinici alternati a una paura raggelante, con “A volo d’angelo” si riesce per un istante a percepire un baluginio dello stordimento causato dal tracollo della normalità, che è la vita stessa quanto le si consente lo svolgimento.
Come dopo un tuffo di 24 metri a picco sul fiume Neretva, per poi riemergere e riscoprirsi vivi. O accorgersi che è tornata la primavera.
Come fosse una magia, una “kind of magic”.
“A volo d’angelo” di Federica Cottini, con Michelangelo Canzi. Regia Federica Cottini
Produzione Teatro Nuovo di Pisa, Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi (Milano).
Visto a Milano, al Teatro del Borgo, il 13 marzo.