Il muro contro il quale rimbalzano le palline da tennis dell’infanzia giocata nei cortili di paese è opaco, spesso giallo, un po’ scrostato, punteggiato di persiane verdi e di vetri di finestra pericolosamente frangibili. Non si può vedere cosa c’è oltre quell’intonaco crepato dalla parietaria infestante come invece si può vedere oltre la quarta parete, montata sul boccascena, contro la quale Paolo Valerio, capelli lunghi trattenuti da una fascia di spugna e tenuta bianca da tennis, palleggia per circa sessanta minuti, per un totale di più di ottocento rimbalzi. Nel suo Il muro trasparente. Delirio di un tennista sentimentale (prod. Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Verona) le competenze attoriali non bastano, servono anche quelle atletiche, è necessario che labbra e racchetta siano perfettamente sincronizzate, che il corpo sia coordinato, che la palla e la voce colpiscano all’unisono questa superficie costituita da pannelli di plexiglas giuntati da liste nere, quasi a ricordare le sbarre di una prigione (scena a cura di Antonio Panzuto).
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Oltre questo diaframma leggero Paolo Valerio vede il pubblico, nel nostro caso quello del Teatro di Rifredi di Firenze, ascoltare la sua voce in cuffia. Eppure parla da solo o meglio con se stesso, come se nessuno lo guardasse dalle poltroncine, come se neppure ci fossimo. Il suo nome è Max, Massimo, ed il suo motto è fare il massimo, subire il minimo. È un delirio sentimentale il suo, un monologo romantico, una serie infinita di scambi fatti con il muro, la storia di un amore tormentato. Un racconto tutto in soggettiva, sospeso tra memoria e attualità ma sostanzialmente privo di cronologia, di riferimenti spazio-temporali certi, autoreferenziale. Alle spalle di Valerio, che si muove entro una porzione di palcoscenico perimetrata da strisce di led bianchi, scorrono sullo schermo immagini di partite di tennis vere e proprie, con servizi e scambi che prevedono un vero partner dall’altra parte della rete, c’è pubblico anche lì, sugli spalti, che ci fa da specchio. Ad intervalli appaiono delle parole chiave, bianco su nero, che scandiscono i capitoli della partita amorosa che si va nel frattempo narrando, ed è allora che il ritmo del monologo accelera, il tono della voce si fa concitato, le luci diventano calde (a cura di Marco Spagnolli) e le scelte musicali in sottofondo si accordano (progetto fonico di Nicola Fasoli). L’intensità e la potenza dei colpi, la loro traiettoria elastica, la distanza dal muro, tutto viene modulato a seconda della diversa temperatura emotiva e degli stati d’animo che via via si susseguono.
Anche i bambini parlano da soli, durante i lunghi pomeriggi assolati passati a giocare a tennis contro il muro giallo, o si raccontano storie, o lasciano vagare i pensieri mentre contano il numero di rimbalzi alla ricerca di un nuovo record. E quanto spesso, ormai adulti, ci abbandoniamo a soliloqui interiori davanti allo specchio o a qualche arringa verso interlocutori assenti. Quando poi siamo innamorati il delirio sconnesso e la narrazione stralunata sono all’ordine del giorno, come in uno stato febbrile, la condizione più patologica che sperimentiamo durante la nostra esistenza, il più alterato tra tutti gli stati della coscienza. I tennisti parlano da soli e si rispondono da soli: cambiano le età e cambiano le mura, ma la solitudine assomiglia sempre a se stessa in tutte le nostre esistenze ed in tutti i nostri amori, c’è sempre un muro che ci riporta alla realtà, che impedisce all’immaginazione di realizzarsi.
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È questa una grande metafora, un’esibita e reiterata teoria dell’equivalenza tra tennis e vita, tra tennis ed introspezione. Il teatro stesso, lo spazio per eccellenza del pensiero divergente e degli infiniti possibili, diventa oggetto di riflessione in questo spettacolo, dalla caratteristiche più uniche che rare. È come stare in un acquario e vedere l’oceano oltre il vetro ed i pesci che ci nuotano accanto, che sbattono il muso, è osservare tutta una vita che brulica e pulsa, ma senza poter interagire, senza farne parte. È questo stesso principio che governa quella parete diafana su cui sbatte ossessivamente la pallina gialla, quella parete che ci consente di vedere dentro Max, di ascoltare i suoi deliri altrimenti imprigionati e inaccessibili, mentre gioca la sua partita senza scambi. In fondo si tratta di un dispositivo teatrale minimo, effimero, ma capace di diventare una barriera potente e rivelatrice, una parete per vedere, uno strumento di conoscenza che seziona l’interiorità e rende l’opaco trasparente, l’invisibile visibile. È anche uno specchio nel quale guardarsi, come ci dice Valerio mentre palline gialle piovono da tutti i lati sul palco: voi giocate contro voi stessi con il vostro muro trasparente.
MARIA FERRONI
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