Pulcinellesco. Di carne e di cielo

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«Coro e cuore, a Napoli, si dice nello stesso modo»: a questo frammento mi aggrappo, come a una possibile via d’entrata nel mondo Pulcinellesco di Valerio Apice, visto sabato 3 maggio a Pontelagosacuro (FE) nell’ambito della Stagione diffusa TOTEM a cura di Teatro Nucleo.

Un teatro seminato in una periferia, il Julio Cortázar, con figure che debordano tra fabbriche e terra, in una proposta che porta il nome delle tende nomadi, delle consistenze rituali e mobili.

Un teatro, quello di Nucleo e quello di Isola di Confine, che si lascia attraversare dai corpi e dalle voci, dalle lingue e dai mestieri, e non solo dagli attori.

Entro nella grande sala.

C’è un prologo al presente.

E poi un video.

Molti teschi.

A Napoli.

Forse è il Cimitero delle Fontanelle, forse è solo la memoria di chi ci è passato.

Ma è chiaro fin da subito: vita e morte qui danzano insieme.

Le immagini dei mercati, vivi e rumorosi come forse solo in quella città-mondo.

Napoli evocata (resa immagine, dunque etimologicamente approssimata) come ventre e altare, come strada e sogno.

La scena è semplice, eppure brulica.

Le proiezioni attraversano lo spazio come fantasmi luminosi, mentre la voce di Apice – ora narrante, ora cantante, sempre (s)mascherata – porta e ci porta dentro un mondo molteplice.

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ALLORA CI PENSA IL CORPO

Pulcinellesco non è solo uno spettacolo su Pulcinella.

È un attraversamento, una discesa e un’ascesa: è scienza del corpo popolare, che è sempre insieme comicità e sacralità, bassezza e vertigine.

Apice si inserisce con rigore e libertà in quella tradizione.

La sua maschera non è mai caricatura: è eco.

Canta e recita come si prega e si bestemmia insieme, come si ride di una tragedia e si piange in una festa.

Il recitar cantando qui non è solo forma, ma necessità: una spinta di significazione che deborda l’uniformità del parlato quotidiano.

La rima baciata diventa esortazione, invocazione, filastrocca che ammonisce e consola, come facevano le nonne, come fanno i cantastorie.

E quando le parole non bastano, quando diventano troppo strette, allora ci pensa il corpo: le braccia, i polsi, le mani.

Un linguaggio danzato che non cerca grazia, ma verità.

Che afferra l’aria, come si coglie l’ultima possibilità.

«Ho fatto delle scoperte, e vorrei condividerle» dice Apice, come se stesse svelando un segreto.

E in effetti è questo che fa: condivide, non impone.

Esorta, non fa prediche.

È un attore colto e popolare, nel senso più alto: come Leo de Berardinis, porta addosso la sapienza della tradizione e la fame del presente. Non recita per il pubblico, ma con il pubblico. Non finge, scava.

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Giotto, Predica agli uccelli, 1290-95

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ACCERCHIARE L’INVISIBILE

E poi c’è Pasolini.

Arriva anche un frammento video di Che cosa sono le nuvole?

Gli occhi di Totò rivolti al cielo, in mezzo a tutto il disastro.

È lì che d’improvviso capisco la scelta del barocco, in questo spettacolo, la sovrabbondanza di significanti e di codici: non è ornamento, è strategia per avvicinarsi all’indicibile.

È proliferazione di segni per accerchiare l’invisibile.

Tutto si tiene, in questo incontro d’anime tra Emilia e Umbria: teatro come atto poetico e politico, teatro che non separa ma unisce.

Che non parla sopra, ma attraverso.

Che si fa corpo plurale, come quello di Isola di Confine, come quello di Teatro Nucleo: gruppi che lavorano tra i territori e i margini, che mescolano arti, saperi e linguaggi, tenendo sempre al centro la relazione.

In questo Pulcinellesco, Pulcinella non è maschera di evasione, ma figura liminale.

Oscilla tra carne e cielo, tra farsa e oracolo.

È il sopravvissuto, il testimone, l’idiota sapiente.

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UN ALTRO BUFFONE SACRO

Pulcinellesco è solo un segmento di un arco più ampio.

C’è, in cantiere, un percorso dedicato a san Francesco.

Un altro marginale, un altro buffone sacro. Un altro che ha scelto di parlare con chi non ha voce – e persino agli uccelli.

Il futuro, allora, non è un luogo distante, ma un sentiero che si apre proprio lì, nel vuoto lasciato dalle parole finite.

La Predica agli uccelli di Giotto – affresco denso e silenzioso nella Basilica superiore di Assisi – mi torna alla mente come possibile sintesi dell’arte che Apice e Isola di Confine praticano.

Un teatro che non urla, ma ascolta.

Che non colonizza, ma chiama.

Che non intrattiene, ma interroga.

Francesco, come Pulcinella, non pretende di spiegare il mondo. Lo attraversa. Lo nomina con linguaggio altro, lo sfiora con gesti che sono carezze e procurano ferite.

E così, qui, si prepara un nuovo canto, un’altra discesa nel sacro quotidiano.
Nel cuore del presente.
Nel coro del futuro.

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