Rito-gioco-festa: su Le nuvole di Amleto di Eugenio Barba / Odin Teatret

ph Francesco Galli

 

Entrare nello spazio scenico de Le nuvole di Amleto dell’Odin Teatret, come a noi è capitato il 14 maggio scorso al Teatro Arena del Sole di Bologna, significa addentrarsi in un dispositivo rituale: due file di sedie si fronteggiano lungo i lati lunghi dello spazio, un rettangolo aperto dove il centro è campo di azione, passaggio, soglia.

Questo impianto – lo “spazio fiume” di Eugenio Barba – disintegra la frontalità teatrale e ripristina una relazione arcaica, pre-moderna, in cui lo sguardo è circolare, solidale, vulnerabile.

Questo assetto, che l’Odin Teatret pratica da decenni, ricorda gli spazi sacri di comunità tribali, le piazze dei paesi, le aule rituali.

Non c’è palco, ma uno scorrere – il “fiume” – in cui la scena si mostra e si trasforma, visibile sempre anche nell’atto del cambiamento.

Il teatro qui è gioco, è rito, è festa. È, nel senso più radicale, ciò che precede il teatro: una necessità antropologica e insieme una celebrazione collettiva.

Già Jerzy Grotowski aveva in molti modi voluto dissolvere la barriera tra attore e spettatore. Barba, allievo e poi maestro, ha continuato questa rivoluzione del dispositivo scenico, interrogandola e rilanciandola.

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IL CORPO DELLA STORIA

Guardare Le nuvole di Amleto è trovarsi di fronte – con gratitudine – a un pezzo di Storia del Teatro.

Non come documento o ricostruzione, ma come corpo vivente. Ci si trova davanti a un ensemble che incarna la memoria teatrale del Novecento e la rilancia nel presente, come una fiamma che non si spegne.

Julia Varley, Else Marie Laukvik: le loro presenze sceniche non sono solo attoriali, ma testimonianze viventi. La loro arte è impastata di anni, di lutti, di resistenze. E lo spettacolo è il frutto più recente di un laboratorio durato sessant’anni.

In tempi di consumismo teatrale e di spettacoli usa-e-getta, incontrare Le nuvole di Amleto significa essere di fronte a un atto di resistenza. Non solo estetica, ma ontologica. Esistere ancora, in scena, come comunità d’arte. E offrire al pubblico un teatro che scava, che interroga.

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ph Francesco Galli

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IL MONTAGGIO DEL VISIBILE E DELL’INVISIBILE

Lo spazio scenico, delimitato alle estremità da siparietti dorati affiancati da file di led colorati, incornicia il gioco percettivo tra narrazione ed evocazione.

Lo spazio, qui, è un tessuto. Letteralmente: stoffe damascate, mantelli, veli, tende. Ma anche metaforicamente: lo spettacolo è un intreccio di canti, lingue, azioni, allegorie.

Non si racconta Amleto, si evoca un Amleto, una sua eco molteplice e diffusa. La partitura scenica è una successione di frammenti che non cerca linearità, ma riverberazione: è composizione cinematografica, mosaico poetico, architettura sonora e visiva.

Il montaggio è discontinuo e fluido insieme: frammenti, scene-mondo, quadri. Shakespeare piange Hamnet. Amleto sogna e delira. I personaggi si confondono. Le lingue si sovrappongono.

Al centro, una stoffa rettangolare – campo di battaglia e culla, tomba e altare – raccoglie e riflette l’azione. La stoffa diventa emblema: superficie che accoglie il dolore, ma anche lo moltiplica, lo ribalta, lo sottrae. Il suo valore è liminale: è pelle tra i mondi, soglia tra vita e morte, infanzia e oblio.

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TEATRO BABELICO, TEATRO PLANETARIO

La pluralità delle lingue non è ornamento, ma dichiarazione politica e poetica. Le nuvole di Amleto parla molte lingue perché è un teatro che viene da molte terre.

Julia Varley incarna voci diverse, è medium, ponte, testimone.

Il canto ha funzione di ancoraggio e di levità: ci sono melodie popolari, ninne nanne, cori antichi.

Il corpo canta, danza, si contorce, si offre.

La scena della pazzia di Amleto, immersa in luce blu e attraversata da gesti convulsi, è una danza dell’inconscio collettivo.

A chiudere: le urla e la danzetta in fila indiana, contrappunto tragico e beffardo, dissolvenza ironica e dolente.

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ph Francesco Galli

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ALLEGORIE IN TEMPESTA

“Amleto è pazzo! No, il mondo è pazzo!”: queste parole, accompagnate da una proiezione in bianco e nero di volti infantili in scenari di guerra e violenza, squarciano l’estetica e la consegnano all’etica.

La pazzia non è più condizione individuale, ma condanna collettiva.

L’Amleto selvatico, giovane, scarmigliato, diventa specchio del nostro tempo infetto.

La battuta più famosa – “Essere o non essere” – è pronunciata dalla più giovane delle attrici, e termina con “è questa la domanda” anziché “questo è il problema”. Scarto poetico minimale ma abissale: si passa dalla diagnosi alla ricerca, dalla paralisi al dubbio generativo.

È il teatro stesso che interroga, che non si chiude nell’aforisma, ma apre all’infinito del possibile.

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PER CONCLUDERE, SENZA FINIRE

Le nuvole di Amleto è una creatura viva, che respira nostalgia e utopia, in cui il teatro ritorna a sé: rito, gioco, festa.

Il passato, incarnato nei corpi degli attori, agisce ancora.

Il futuro – incerto, selvaggio, impossibile – viene danzato.

Siamo stati di fronte a un pezzo vivo di Storia del Teatro. E siamo usciti, commossi, da un fiume. Bagnati da parole, immagini, grida, danze.

Dire grazie, almeno.

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ph Annalisa Gonnella

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