Rendere visibile il visibile. Note su Sottocasa Festival

 

Una drammaturgia diffusa, fatta di gesti quotidiani, scorci familiari, tracce anonime ha preso corpo e parola a Ravenna grazie a Sottocasa Festival: non su un palcoscenico astratto, ma nei tessuti vivi dell’ordinario. In cortili attraversati dalla vita, in spazi abitati da silenzi sedimentati e brulicanti rumori, da sguaiatezze e sussurri.

Non si è trattato di portare l’arte dove l’arte non c’era, ma di far emergere l’arte che già abita i luoghi, come potenzialità sopita. Ogni muro, ogni voce, ogni passo condiviso durante il Festival hanno attivato una torsione dello sguardo, una lieve scossa alla percezione: ciò che solitamente scivola ai margini della vista è tornato alla soglia dell’attenzione.

È questa l’operazione centrale – insieme minima e profonda – che il Festival ha compiuto: non mostrare l’invisibile, ma rendere visibile il visibile. Ridonare peso alle cose che l’abitudine ha reso quasi trasparenti.

Come il Novecento nelle sue propaggini artistiche più radicali ed evolutive ci ha insegnato, non si tratta di costruire mondi fittizi, ma di abitare con consapevolezza quello che c’è.

 

FOTOGRAFIE CHE CI (RI)GUARDANO

Nel cuore di questo progetto – la cui emersione visibile dal 31 maggio al 20 giugno è solo la punta di un processo ben più vasto – c’è un’idea di immagine che non è ornamento, né documento, ma esperienza condivisa, gesto relazionale, superficie di contatto.

Le fotografie che hanno punteggiato il Festival – archivi familiari, raccolte amatoriali – non illustrano, non informano: interrogano. Sono immagini che, più che offrire una visione, ci obbligano a fermarci. Sospendono la velocità della fruizione e ci restituiscono il tempo lungo dello sguardo.

In molte di esse, si avverte l’eco delle rivoluzioni silenziose che hanno attraversato la storia della fotografia del Novecento: lo spostamento del focus dal grande evento al fatto minore, dal centro ai margini, dalla celebrazione all’osservazione minuta. Il paesaggio ordinario, le case popolari, le aree dismesse, le prospettive sbilenche: tutto ciò che per decenni è stato escluso dal canone dell’immagine “significativa” si è fatto luogo sensibile.

Sottocasa raccoglie questa eredità e la traduce in gesto collettivo. L’immagine non è più l’opera firmata da un autore, ma una tessitura di sguardi, un esercizio di prossimità. Le fotografie appese ai muri e agli sportelli del gas restituiscono alla visione una dimensione intima, quasi domestica, eppur spalancata. Ci dicono che guardare non è possedere, ma partecipare.

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ph Aliy Soltan Toumi

ASCOLTARE È COMPORRE

Tutto in Sottocasa nasce e si organizza attorno a una pratica primaria: l’ascolto. Non come tecnica, ma come postura. Ascoltare è rinunciare alla sovranità dell’interpretazione, è cedere spazio all’altro, accogliere ciò che ancora non è stato tradotto in forma.

Lo spettacolo Voci che ha preso corpo in un cortile di case popolari – dove le voci reali di chi abita il luogo, raccolte e rilavorate, sono tornate a circolare nello spazio condiviso – è una manifestazione di questa estetica dell’ascolto. Non c’è finzione né mimesi, al centro di quell’accadimento, ma risonanza affettiva, movimento quieto e profondo che restituisce alle parole la loro fragile potenza etimologicamente biografica, dunque dello scriver vite e di far delle vite avventura del linguaggio.

In questo senso, ogni azione del Festival è una composizione aperta, fragile, continuamente rinegoziata con chi partecipa. Qui il pubblico non assiste: abita. Non contempla: co-costruisce.

 

IL VALORE DELL’IRRILEVANTE

L’intero lavoro curatoriale e relazionale di Sottocasa sembra fondarsi su una scelta etica e radicale: attribuire valore a ciò che il pensiero dominante ritiene trascurabile.

Fotografie a volte sgranate, voci terrigne, spazi apparentemente senza qualità, storie che non hanno nulla di spettacolare. L’arte qui non interviene per redimere, per sublimare, per trasformare o patinare il reale: riconosce, accompagna, lascia emergere.

Questa è una scelta profondamente politica.

In una società che valorizza solo ciò che si impone, che attrae attenzione, Sottocasa lavora per dare parola a ciò che non grida. Ricostruisce uno spazio dell’intimità, del dettaglio, della cura.

Ogni immagine, in questo contesto, non è mai icona da contemplare, ma traccia da esplorare. Una feritoia da cui lasciar entrare la memoria, propria e altrui. Ogni fotografia è un passaggio tra visibile e invisibile, tra ciò che si mostra e ciò che si evoca.

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ph Massimo Carioti

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PEDAGOGIA INCARNATA

Nel lavoro lento, profondo, condiviso da moltissime persone e realtà coordinate con rigore e passione da Silvia Savorelli e Giuseppe Pazzaglia dell’associazione Sguardi in Camera, si riconosce una pedagogia incarnata nei luoghi e nelle relazioni.

Sottocasa non è un contenuto da comunicare, ma un processo da attraversare. E chi lo vive – artista, abitante, operatore, passante – è chiamato ad accorgersi: di dove si è, di chi si ha accanto, di ciò che abita lo spazio comune.

Accorgersi non è semplicemente vedere.

È riconoscere.

È concedere cittadinanza al dettaglio.

È sospendere la fame di senso immediato e abitare il tempo lungo dell’attesa.

È, in definitiva, un atto di giustizia sensibile.

In questa pedagogia dello sguardo si può riconoscere, come in un basso continuo, la poetica fotografica di Luigi Ghirri. Come le sue immagini – capaci di accogliere l’invisibile nella più semplice, finanche banale apparenza – anche qui il mondo non è reso spettacolare, ma rivelato nella sua prossimità.

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PER FORTUNA

Sottocasa protegge un tempo che oggi appare quasi impraticabile: quello della cura.

Delle immagini, delle parole, delle relazioni, dei luoghi.

Ogni gesto è parte di un’ecologia più ampia, in cui l’arte non è funzione, ma relazione.

In questo tempo lento e condiviso si riconosce il cuore del Festival: non messaggio da decifrare, non intrattenimento da consumare, ma spazio di azione e riflessione collettiva.

Un’arte del noi che non cerca di spiegare, ma di stare.

Come scrisse Franz Kafka, per fortuna è veramente un viaggio immenso.

 

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