
In un Paese che si racconta (ancora) con la voce roca del patriarcato, Donne e impresa teatrale a cura di Stefania Bruno e Loredana Stendardo (Editoriale Scientifica, Napoli, 2024) appare come una presa di parola tagliente e strutturata.
Un libro che ha l’ambizione, e il coraggio, di ricucire genealogie disperse, di offrire strumenti critici, di inscrivere finalmente nella mappa dei saperi ufficiali la storia dell’impresa teatrale femminile e femminista, restituendole la sua forza trasformativa.
È infatti evidente che anche nel campo dello spettacolo dal vivo – che ci si ostina a immaginare (o forse solo a fantasticare) come “più aperto”, più evoluto – il gender gap è ancora sistemico: basti ricordare che oggi in Italia solamente poco più del 10% dei ruoli direttivi, a tutti i livelli, sono affidati a donne, e che la sotto-rappresentazione femminile nei ruoli apicali è proporzionale all’occultamento delle pratiche storiche di gestione alternativa e collettiva del fare teatro.
È da questa amara consapevolezza che nasce il volume, ed è con intelligenza che Bruno e Stendardo costruiscono un percorso che, pur nella sua articolazione molteplice, mantiene una direzione chiara: raccontare e analizzare l’impresa teatrale delle donne come costruzione autonoma, politica, spesso collettiva e relazionale, che si è sviluppata a partire dai territori e ha generato nuovi linguaggi, nuovi modi di stare al mondo.
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LA COOPERAZIONE COME PRASSI POLITICA
Fil rouge di questo polifonico discorso (uso questo termine nell’accezione focaultiana del rapporto sempre dialettico tra sapere e potere) è l’attenzione al movimento cooperativistico teatrale nato a cavallo del Sessantotto.
In un’epoca di grandi trasformazioni sociali e culturali, molte artiste (e artisti) scelsero la forma cooperativa non solo per motivi organizzativi, ma come strumento per ripensare radicalmente i rapporti di lavoro e di forza.
La cooperativa teatrale si configurava allora come un micro-laboratorio di società altra, un modo per esercitare concretamente un’etica della responsabilità condivisa, della non-verticalità, della libertà collettiva.
Non si trattava solo di mettere in discussione la gerarchia regista-attori o la logica impresariale del teatro borghese: era un modo, in senso più ampio, di concepire l’impresa teatrale come forma di vita comune fondata sull’autonomia, sulla mutualità, sull’interdipendenza.
Le pratiche dell’animazione teatrale – nate proprio in quel contesto – rappresentano un esempio formidabile di arte che si radica nei territori per risponderne ai bisogni, anziché piegarli a un’estetica estrattiva.
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LA MADDALENA, LE NEMESIACHE: DRAMMATURGIE DELLA LIBERTÀ
Nel cuore pulsante di questo volume troviamo il saggio densissimo e luminoso di Roberta Gandolfi, che si muove con rara finezza tra storia, teoria e politica.
Gandolfi indaga i teatri femministi italiani degli anni Settanta e Ottanta, prendendo ad esempio due esperienze emblematiche e affascinanti: il collettivo La Maddalena a Roma e Le Nemesiache a Napoli.
Due realtà profondamente differenti per linguaggi, contesti e obiettivi, ma forse unite da un intento comune: «una radicale de-colonizzazione – sul piano simbolico che è proprio delle pratiche artistiche – di figure e rappresentazioni delle relazioni di genere».
L’arte, qui, diventa spazio di dissenso, di ridefinizione dell’immaginario, di insubordinazione ai ruoli sociali prescritti.
Gandolfi restituisce con precisione storica e acume critico la potenza eversiva di queste pratiche teatrali, che rifiutavano l’estetica come ornamento e l’identità come destino.
In forte consonanza è il successivo saggio, di Maia Giacobbe Borelli, che approfondisce la vicenda de La Maddalena da una prospettiva complementare: quella della costruzione di uno spazio relazionale autogestito e intergenerazionale dove politica, affettività e arte si intrecciano.
Borelli legge La Maddalena come un laboratorio in cui la performatività non è solo artistica, ma esistenziale e sociale.
In filigrana, si coglie una sorellanza epistemologica tra le due studiose, che risuona con forza nella genealogia del pensiero femminista italiano, spesso capace di coniugare teoria e militanza, sapere e cura.
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DIVINA: UN LABORATORIO DI PENSIERO INCARNATO
A dare ulteriore profondità a questa trama teorico-politica è il saggio di Carlotta Pedrazzoli, che si concentra su un’esperienza forse poco nota ma densamente significativa: quella di Divina, progetto artistico e spazio di elaborazione teorica nato e concluso negli anni Novanta all’interno di Laboratorio Teatro Settimo.
Un luogo liminale in cui pratiche artistiche, riflessioni femministe e urgenze politiche si sono intrecciate in forma processuale: un’esperienza che ha saputo tenere insieme tensione estetica e slancio analitico, corpo e pensiero, creazione e dissenso.
Divina nasce dall’incontro fra artiste e intellettuali: è in questo equilibrio precario e mobile che si produce una forma inedita di alleanza tra sapere e fare, tra parola e azione, che potrebbe forse essere definita – con una formula cara a certo femminismo italiano – come pensiero incarnato.
Pedrazzoli sottolinea con lucidità come Divina non sia stata solo una condivisione di intenti, ma anche un campo di contraddizioni, tensioni e conflitti: la convergenza non è mai data, ma sempre da costruire. Eppure è proprio in questi attraversamenti difficili che il progetto trova la sua forza: non come utopia pacificata, ma come spazio vivo e vulnerabile di co-creazione.
In un panorama teatrale italiano spesso diviso tra produzione istituzionale e marginalità residuale, Divina ha rappresentato – e rappresenta ancora, nel suo lascito – una forma alta e rara di teatro come ricerca, dove la teoria non è ornamento né rivendicazione postuma, ma elemento generatore dell’azione.
Quello che emerge, in controluce, è anche una riflessione sul ruolo delle intellettuali nei processi creativi teatrali, e sulla possibilità di costruire un “teatro pensante” senza per questo cadere nell’intellettualismo o nella sterilità pseudo-accademica.
È, in definitiva, un esempio prezioso di ciò che potrebbe (ancora) essere il teatro: non una fabbrica di contenuti più o meno facili e vendibili, ma una forma condivisa di conoscenza e trasformazione. Un esercizio di libertà e consapevolezza, praticato insieme.
DALLE PATATE ALLE STELLE: LE TESTIMONIANZE
La sezione delle testimonianze, che chiude il volume, è di rara potenza emotiva e politica. Non come appendice sentimentale o narrazione accessoria, ma come piena continuità del discorso teorico e storico che la precede. Qui le voci parlano da dentro la materia viva del teatro, e lo fanno con una nudità che è al tempo stesso lirica, politica e irriducibilmente concreta.
Mariella Fabbris, con la sua scrittura nuda e poetica, incarna con esattezza il ponte fra lo slancio ideale del passato e la pratica quotidiana del presente. Non racconta un’epopea, ma una continuità fatta di piccoli gesti, di ostinazioni quotidiane. Dall’esperienza fondativa con Teatro Settimo, uno dei progetti cooperativistici più importanti del secondo Novecento teatrale italiano, alle case dove ancora oggi porta le sue storie, Fabbris non smette di camminare, con la sua valigia “piena di patate o di acciughe, recentemente anche di fagioli”. Ogni alimento è un gesto, ogni ingrediente una memoria. Teatro come nutrimento, come gesto di prossimità, come forma di alleanza fra i corpi. Un teatro fatto a mano, fatto a voce, fatto a tavola, che non rinuncia alla poesia mentre coltiva la terra della realtà.
La sua scrittura attraversa e scavalca le categorie: testimonianza, narrazione, meditazione, atto performativo si confondono. Fabbris si muove nell’intercapedine tra vita e scena, fra impegno e visione, e ci ricorda che il teatro può – e deve – restare gesto di cura concreta, corpo offerto, sguardo che incontra. L’etica dell’inizio non è nostalgia, ma fondamento ancora vivo. E oggi trova un nuovo sbocco nel sostegno che Fabbris dà a un’associazione neonata di donne migranti, che cucinano e aiutano i figli a fare i compiti: ancora una volta, teatro come alleanza, come gesto che si fa luogo. E luogo che diventa futuro.
Nella stessa direzione, anche se con registro diverso, si colloca la voce appassionata, lucida e determinata di Natasha Czertok, che rievoca la lunga storia del Teatro Nucleo: un percorso esemplare di coerenza e trasformazione, nato nel cuore degli anni Settanta e ancora oggi attivo in uno spazio decentrato, a Pontelagoscuro, a pochi chilometri da Ferrara, che è diventato fucina e casa per un’arte radicata, militante, comunitaria. Il suo racconto intreccia relazioni, visioni e ostinazioni, nomi e traiettorie che si inseguono nei decenni, e rilancia con profonda gratitudine la figura di Cora Herrendorf, artista, pedagoga e pensatrice argentina, cofondatrice e anima del gruppo.
Herrendorf – scomparsa nel 2023 – viene evocata non con enfasi celebrativa, ma con quel pudore che si riserva ai gesti fondativi. Insegnare e fare teatro diventano, nella sua visione, un’unica pratica di liberazione. Dalle tournée ai progetti nelle carceri, dai laboratori in manicomio alle parate nei quartieri, il Teatro Nucleo ha incarnato – e continua a incarnare – un’idea di arte come pedagogia del possibile, luogo in cui è ancora lecito pensare che il mondo si possa cambiare a partire da una piazza, da un coro, da un esercizio fisico collettivo.
Queste testimonianze, lette oggi, risuonano come mappe per il futuro. Non ci parlano soltanto di ciò che è stato, ma ci indicano strade da riaprire, terreni da coltivare, costellazioni da tenere accese
Mariella Fabbris e Natasha Czertok – come altre voci raccolte in questa sezione – non rivendicano, non commemorano, non insegnano: mostrano. E in questo gesto ci offrono il lascito più prezioso del volume: la memoria come slancio, la prossimità come forma, la cura come atto radicale.
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PER UNA POLITICA DEL DISCORSO, PER UNA SOCIETÀ DELLA CURA
Donne e impresa teatrale non è solo un libro importante per il mondo dello spettacolo dal vivo: è un atto di restituzione, riconoscimento e rilancio che riguarda l’intera società. È un gesto di consapevolezza collettiva che ci interroga su come costruiamo ogni giorno le strutture del visibile, su quali storie lasciamo emergere e quali lasciamo affondare, su chi abita legittimamente lo spazio pubblico – e chi vi rimane ai margini.
Restituisce storie sommerse, biografie artistiche e politiche rimaste ai bordi del canone, pratiche che hanno saputo coniugare creazione e cura, militanza e immaginazione, anticipando possibilità che oggi, nel cuore delle nostre crisi – ecologica, sociale, politica – appaiono non solo desiderabili, ma necessarie. E rilancia un dibattito che è tutto fuorché concluso.
In questo senso, Donne e impresa teatrale non è un catalogo di esperienze né una rassegna celebrativa, ma un vero dispositivo di pensiero critico. La sua forza sta nella pluralità dei linguaggi e delle posizioni, nella coesistenza di saggi analitici, testimonianze, studi storici, atti di memoria e di militanza. Un coro polifonico che mette in scena una genealogia femminile e femminista della scena italiana, ma soprattutto ci offre un metodo: partire dai margini per ripensare il centro.
Il femminismo che emerge da queste pagine è un femminismo delle pratiche artistiche e della trasformazione simbolica, capace di attraversare linguaggi e territori, di costruire alleanze tra soggetti differenti, di interrogare radicalmente il presente. È un femminismo che non si limita alla rivendicazione, ma si fa gesto generativo, atto poetico, forma politica. Un femminismo che decostruisce i codici, reinventa le rappresentazioni, mette al mondo nuove forme di vita e di relazione. Non è un caso che molti dei progetti raccontati nel volume abbiano messo al centro il rapporto con il territorio, la costruzione di comunità, l’ascolto dei bisogni, l’autonomia cooperativa come forma di libertà condivisa.
In un’epoca in cui sembra essere tornata dominante la narrazione dell’io competitivo, della solitudine come destino, della verticalità come unica forma possibile di potere, questo libro ci invita a riscoprire un’idea di impresa culturale che è anche impresa collettiva, esperienza di responsabilità partecipata, atto di cura verso l’altro da sé e verso il mondo.
A partire dalle donne, ma non solo per le donne.
Questo è forse il gesto più potente del libro: non parlare solo “di” teatro e “di” donne, ma parlare a una società che ha bisogno urgente di altri paradigmi.
Creare discorso oggi – come fanno le molte voci in questo volume – non è un esercizio retorico, ma un atto di resistenza e visione. Significa riconoscere la parola come luogo di presa sul reale, come possibilità di ridisegnarlo.
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