Un osservatorio vivo e partecipato sul potenziale trasformativo dell’azione teatrale, tra spettacoli, laboratori e incontri pubblici: è Homo Ludens, una rassegna internazionale di teatro, performance e formazione artistica, promossa dalla compagnia Hospites Teatro, a Bologna dal 19 al 29 giugno.
Al centro del progetto, il gioco come motore della creazione scenica e della ricerca su quello che il gruppo definisce “socioattorialità”, una teoria e una pratica performativa basata sulla relazionalità e sul tentativo di portare non tanto la vita nell’arte, quanto l’arte nella vita.
Hospites Teatro: come e quando nasce la compagnia?
«La compagnia nasce nel 2018 – racconta Roberto Giani, attore e co-fondatore della compagnia – ma ci siamo incontrati per la prima volta l’anno precedente in occasione di un workshop dell’Open Program del Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards, promosso dall’Università di Bologna e diretto da Mario Biagini, gruppo di cui Eduardo (ndr Landim, co-fondatore di Hospites Teatro) faceva parte. Da questa esperienza alcuni di noi hanno deciso di continuare a fare progetti insieme, chiedendo a Eduardo di supervisionare periodicamente il nostro lavoro. Siamo poi stati invitati alla sede della compagnia a Pontedera, dove è stato ancora più evidente il nostro desiderio di voler immaginare delle progettualità, soprattutto legate al canto corale. Abbiamo iniziato con l’ideazione di un brano a partire dai nostri differenti dialetti, ognuno studiando i canti folkloristici della propria regione, poi rielaborati in scena. La nostra attività artistica è iniziata dunque così, ma le nostre produzioni hanno diverse forme, dagli spettacoli frontali e tradizionali, a performance site-specific o adattate a contesti all’aperto».
Voi definite come centro della vostra ricerca la socioattorialità. Di cosa si tratta?
«La socioattorialità – spiega Eduardo Landim, regista, direttore e co-fondatore di Hospites Teatro – è una risposta alla degradazione automatica dei rapporti sociali, siano essi sociali o pubblici. Quando mi sono trasferito in Italia cercavo una possibilità di fare teatro che non ignorasse le dinamiche relazionali dell’umano e affrontasse la possibilità di creare confronti rispettosi l’un l’altro, non competitivi o litigiosi. Con l’Open Program percepivo come necessario tenere in considerazione questi aspetti, dal momento che eravamo un gruppo di persone provenienti da diverse parti del mondo e vivevamo un’intensa convivialità. Tuttavia il talento artistico di molti sembrava scomparire proprio nelle ore fuori dal palco o dalla sala prove.
Ho iniziato allora a chiedermi come potesse essere possibile che delle competenze artistiche sfuggano alla vita reale e ho cominciato a fare degli esperimenti, come muovermi in modo inusuale durante una riunione. Il tentativo era rompere cliché e schemi prestabiliti. Ciò che mi interessa è sempre stato cercare di sviscerare tutti gli strati clandestini del fare teatro in un certo modo. Da qui anche il nome della compagnia, Hospites, che dopo lunghi dibattiti ci è sembrato il più fedele al percorso che stavamo intraprendendo e alla nostra idea di qualità attoriale che si manifesta in contesti sociali».
Come si declina nella pratica artistica questo concetto di socioattorialità?
Eduardo: «Socioattorialità è una parola artificiale, un nome dato a un fenomeno che aveva bisogno di definizione, una teoria che nasce in realtà dalla pratica. Prima di nominarla, infatti, abbiamo iniziato da degli esercizi, tra cui il tentativo di espandere la nostra attenzione quando ci si trova in sala prove, nell’ottica di superare l’aspetto formale di ciò che si deve imparare prima di salire sul palcoscenico per cogliere tutte quelle informazioni sottese, presenti solo nella relazionalità. Il lavoro è diventato quindi sulla percezione, chiedendo a ognuno di prestare attenzione ai movimenti, anche minimi, di azioni compiute dagli altri. Siamo così andati a comporre una sequenza di esercizi per metterci in contatto con altri strati di percezione. In un secondo momento abbiamo cominciato a pensare all’approccio didattico, in cui l’artista che insegna si comporta in modo differente rispetto a quando sta in scena. Volevamo quindi tornare a una trasmissione di competenze che fosse già un fare, provando e riprovando, sviluppando in quanto attori, attrici e performer quel che serve agli altri per ricevere le nozioni necessarie».
Entrando nel vivo di Homo Ludens, scrivete che è una tappa del vostro percorso di ricerca. Perché è nata l’esigenza di una rassegna pubblica e come si struttura?
Roberto: «Homo Ludens nasce dalla necessità di dare visibilità a questa ricerca e creare un momento di condivisione di pratiche e teorie. La rassegna si compone di uno spettacolo di apertura, di un seminario con docenti e di un evento finale. Il cuore del progetto è il seminario, in cui noi pratichiamo il lavoro sulla socioattorialità confrontandoci con altri operatori teatrali provenienti da realtà e paesi diversi. Homo Ludens è infatti sostenuto dal programma Erasmus+ ed è realizzato con la collaborazione dell’Agenzia Italiana per la Gioventù. Ci saranno anche ospiti dal Brasile, con cui avevamo lavorato già negli anni precedenti.
Obiettivo ultimo è quello di sviluppare delle metodologie che ogni partner possa applicare nei suoi contesti locali per vedere cosa funziona e che cosa meno. In quest’ottica abbiamo coinvolto partner che applicano strumenti teatrali in vari ambienti sociali, come nel caso del partner belga che lavora con le vittime di violenza, o quello irlandese che si confronta con la dispersione scolastica. Credo che Homo Ludens rappresenti una fase intermedia della nostra ricerca, molto importante perché facciamo un salto dal nostro contesto intimo locale, per aprirci a territori più ampi, sia in termini geografici che disciplinari».
Homo Ludens, un titolo emblematico che rimanda al gioco. Qual è l’ispirazione e perché il gioco come nucleo centrale della rassegna?
Eduardo: «Il gioco è una pratica che ci accompagna fin dalla fondazione della compagnia, nel tentativo di creare un ambiente di lavoro in cui non si senta tensione nel momento didattico o delle prove. Il gioco, insomma, dà la possibilità di rompere alcuni schemi, di rilassarsi in un ambiente “sicuro”, più lento, in cui non c’è giusto o sbagliato ma tentativi. Uno dei complimenti più belli che ho ricevuto è stato di uno spettatore che mi ha detto che sul palco sembravo come fossi nella mia stanza. Vorrei dunque che il nostro lavoro avvenga in situazioni di comfort, senza preoccupazioni di un occhio esterno. Da qui allora parliamo sempre di gioco, mentre il titolo della rassegna viene da Leonardo, il nostro responsabile della comunicazione, su ispirazione dell’omonimo libro di Johan Huizing».
A proposito di fonti di ispirazione, quali sono i vostri artisti, saggi o altri materiali di riferimento per la vostra teoria?
Roberto: «Penso che ognuno di noi singolarmente come attore abbia il proprio bagaglio teorico di riferimento. Per quanto mi riguarda non ho un solo libro, film o spettacolo, ma l’insieme delle esperienze di tutti i libri film e spettacoli che sono stati per me significativi. Tutto questo converge poi negli obiettivi che ci diamo per un dato progetto o workshop, concorrono per arrivare alla meta che ci siamo prefissati, aprendo a differenti soluzioni.
Eduardo: «Un artista straordinario per me è Antonio Rezza. I suoi spettacoli mi hanno portato a riflettere molto sul concetto di gioco di cui parlavamo prima, ma anche sulla relazionalità, per la stranezza dei rapporti e dei personaggi che porta in scena. Il suo è un lavoro che ammiro per la capacità di trovare un equilibrio tra forma e follia. Sul piano più teorico invece, essendomi ora ritrovato di nuovo all’università, ho avuto modo di confrontarmi con diverse discipline, tra cui le neuroscienze, la filosofia, la psicologia. Tra gli autori segnalerei David Bohm, un fisico quantistico che ha scritto Sul dialogo, uno studio sulla comunicazione dal punto di vista delle particelle atomiche; oppure Paul Ekman, uno psicologo nordamericano che ha composto un catalogo di microazioni per interpretare le reazioni dell’essere umano; o ancora, la teoria delle massime conversazionali di Grice e La vita come rappresentazione di Goffman».
Conoscete già le prossime tappe della ricerca? A quale orizzonte ideale puntate?
Eduardo: «Rispondo con qualcosa che forse potrebbe sembrare un sogno molto banale, poco ideale e più concreto. Quello che vorrei da qui in avanti è che questa ricerca, e il nostro impegno in generale, possano sostenersi economicamente e, dunque, possano diventare un lavoro a tempo pieno. Ormai ci siamo rassegnati all’idea che l’arte non paga, o non lo fa quanto dovrebbe, ma forse non dovremmo accettare questo tipo di realtà e chiedere un riconoscimento maggiore. Guardando ancora più lontano, mi piacerebbe coinvolgere nei progetti persone, gruppi e comunità che con il teatro non hanno nulla a che fare, ma che vi si avvicinano solo per curiosità, e vedere cosa accade, lasciandoci sorprendere».