E’ indubbiamente un momento di moda, rivitalizzazione e ritorno dell’opera di Tomasi di Lampedusa: prima la serie Netflix con Kim Russi Stuart, poi la traccia nel tema d’italiano agli esami di maturità e adesso questo testo, tratto dal romanzo dello stesso direttore artistico del Campania Teatro Festival Ruggero Cappuccio (rassegna che ha prodotto lo spettacolo assieme al Teatro di Roma), sulla madre dell’autore siciliano gattopardesco.
Nel Teatro Sannazaro, vero salotto borghese napoletano, uno dei più belli della città sul golfo, Sonia Bergamasco ha preso le sembianze di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò diventando (sua anche la regia) La Principessa di Lampedusa in una sorta di seduta spiritica a tinteggiare una vita forte e decisa, ad affrescare questa donna di polso. Dietro di lei, che gioca e si spinge e svolazza su un’altalena fanciullesca, spensierata e leggiadra, tre archi (scena di Paolo Iammarrone e Vincenzo Fiorillo), il primo rotto a metà, il secondo con le corde e la tavoletta per la seduta, il terzo con pietra ed armatura di metallo come ad identificare una gloria passata e ormai dall’intonaco caduto e allo stesso tempo un’anima ancora dura che non vuole morire né cedere alle intemperie del tempo, nonostante tutto ancorata e agguerrita, ben salda anche se scrostata. Dietro gli archi un campo di grano che teatralmente ci ha portato dentro “Nella solitudine dei campi di cotone di Koltes” come nella scena de “I giganti della montagna” pirandelliani nella versione di Roberto Latini. Mentre per quanto riguarda l’altalena la mente è andata immediatamente al 7 14 21 28 della coppia Rezza/Mastrella. Archi di tufo che sappiamo essere poroso, perfetto per trattenere passato e storie sepolte e polverose.
Suggestive le luci (di Cesare Accetta) che sottolineano i momenti minimalisti di questa dama elegante e raffinata, una Bergamasco dalla silhouette-ombra della sera (ci ha ricordato alcune sinuose donne di Rodin), ballerina del carillon, luci cangianti dal blu dell’alba al celeste del giorno, al giallo del ricordo, al rosa della femminilità, al rossastro dell’impulsività, al violetto del sogno fino al biancastro dell’oblio in continui passaggi cromatici, temporali ed esistenziali. L’attrice è in bianco come una sposa, attorniata da grilli e cicale, tra i cigolii arrugginiti di quest’altalena che sembra tagliare l’imene tra il nostro mondo, che ormai non le appartiene più, e l’Aldilà dal quale è tornata per spiegarci, raccontarci vizi e virtù, mettere i puntini sulle i. Un romanzo storico lo definiremo, un passaggio fondamentale per capire anche una certa storia d’Italia di poteri e strategie, di fazioni e consorzi, a tratti troppo didascalico e didattico nel perdersi tra le date, meglio quando si lancia ed erge e si getta nel poetico, nell’epica.

La Bergamasco, alla quale possiamo imputare soltanto un forzato siciliano che stona e che sentiamo lontano e non realistico di vocali troppo aperte, si dondola come un fantasma, come il Cristo velato, ricordandoci una donna con un burka trasparente, somigliante all’installazione scultorea di Jaume Plensa, Silent Hortense, proprio in questo momento eretta in Piazza del Municipio a Napoli, davanti al Maschio Angioino e alla sua gru gialla, che raffigura una testa candida di donna ad occhi chiusi e con le mani, mozzate, sulla bocca come a non voler dire o come se qualcuno non voglia che parli.
Tante voci si rincorrono, la rincorrono, la abitano, le prendono il corpo, la possiedono, vogliono raccontare il loro pezzo di verità. C’è un’aria di morte in questa fotografia onirica, grazia e manierismo e decadenza in un biopic trasognante, in questo flusso di cose non dette, di parole taciute, di attimi non spiegati: per la Principessa di Lampedusa questo ritorno al tangibile terreno è una liberazione, una purificazione, un eliminare le scorie per sentirsi, finalmente, più leggera, senza pesi da trascinarsi tra le nuvole. Finalmente un respiro. Pubblico commosso, eccitato, in estasi.
Visto al Teatro Sannazaro di Napoli il 21 giugno.