La soglia tra spiaggia e giardino offre un rito.
Una danza che orienta lo spazio e il tempo secondo i punti cardinali. I corpi disegnano l’aria, seguendo il ritmo del respiro amplificato: una sonorizzazione che evoca l’energia vitale, il prāṇa, ma anche un soffio corale, comunitario.
Il gesto si ripete, si incarna, si carica lentamente di densità simbolica: siamo dentro una soglia.
È l’inizio di un percorso che, come la Bhagavadgītā, vuole abitare il dissidio tra azione e rinuncia, tra veemenza e ascolto.
Da tre anni il discorso del Grande Teatro di Lido Adriano evolve nel cuore popolare e marginale della periferia ravennate.
A ogni ritorno si fa più preciso, più stratificato, più complesso.
La drammaturgia musicale si affina, i quadri coreografici si addensano, le relazioni tra le figure in scena si fanno più incise, geometriche, perfino quando sembrano caotiche.
È un teatro che si fa “attraverso il fare”: un pensiero agito, scolpito nei corpi.
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COSTUMI BATTAGLIERI, SLOGAN DIVARICATI
Il combattimento, in questa Bhagavadgītā (che ancora si può vedere, fino a domenica 8 giugno, nell’ambito del Ravenna Festival), non è solo metafora: è anche nello sguardo.
Costumi di scena battaglieri – mimetiche, pettorine, anfibi – evocano una guerra diffusa e contemporanea, interna e collettiva.
Qui la guerra non è allegoria lontana: è vissuto e televisione.
«Io la guerra la vedo in televisione, mi passi il pollo con le patate?», dice una signora-attrice, con una sobrietà che trafigge più della metafora.
Non è ridicolizzazione, ma crudele riconoscimento dell’assuefazione.
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IL SUONO COME CAMPO DI BATTAGLIA
Il paesaggio sonoro, in Bhagavadgita, non è cornice ma protagonista.
Si alternano proclami, voci spezzate, risate e parole non sempre intelligibili a punteggiare la linea drammaturgica, tracciata da Tahar Lamri.
E poi la parte musicale, scritta da Francesco Giampaoli: molti strumenti dal vivo, canto solista, cori, frequenze che ricordano più un rituale iniziatico che un accompagnamento.
È qui che si innesta la voce limpida e penetrante di Jessica Doccioli: una fragranza vocale rara, che apre squarci lirici all’interno di un dispositivo visivo e gestuale spesso ruvido, come il passo marziale di molti quadri scenici. È un contrappunto, una voce indimenticabile che dice: anche la delicatezza è lotta.
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NON SI DICE, SI PRATICA
Il termine dharma – mai spiegato, sempre pronunciato – attraversa l’intero spettacolo come un battito interiore. È legge, è dovere, è inclinazione. È la linea del proprio compito nel mondo. Ma chi la decide, e come si riconosce?
Il continuo riferimento al dharma, senza mai chiarirlo del tutto, lascia lo spettatore in una sospensione inquieta, benefica.
Non c’è didascalia, solo immersione.
Il dharma non si dice: si pratica, o si disattende.
La domanda allora si fa presenza scenica, e si riverbera nella precisione con cui si muovono, insieme, decine di corpi di età e provenienze diversissime, senza distrazioni né cedimenti, per un teatro in cui la molteplicità non è concessione, ma cifra essenziale.
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MODER E L’ADOLESCENTE
Un momento scintilla: una ragazza adolescente si mette a rappare.
Insieme a lei c’è Lanfranco Vicari, detto Moder: nella scena del rap underground italiano è sempre più conosciuto e rispettato; qui, al CISIM, è Direttore Artistico e motore, insieme a un manipolo di altre persone, del tanto che vi accade.
È un duetto improbabile e perfetto.
Le loro voci si intrecciano, la voce nuova e quella navigata si guardano e si riconoscono.
Non sembra esserci insegnamento e apprendimento: l’atto è puro presente.
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LUIGI DADINA, IL CORPO DEL REGISTA
Per la prima volta, nel Grande Teatro di Lido Adriano, il regista Luigi Dadina è anche in scena, in tuta da operaio.
È un’immagine che rimanda con forza a due esperienze: il suo ruolo ne L’Avaro delle Albe e, soprattutto, il suo racconto di vita operaia all’ANIC, in Narrazione della pianura.
Qui, la tuta è più che costume: è corpo biografico, dharma incarnato.
Non nostalgia, ma consapevolezza: quella di chi ha conosciuto la fatica, e sa che l’arte, per dirsi tale, deve immergere le mani.
Darsi da fare.
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LA SPIRALE DEL TEMPO
Il tempo di Bhagavadgītā non è lineare. È scandito da ripetizioni, ritorni, accumuli.
Non procede, ma ruota.
Ogni gesto si fa narrazione. Ogni parola diventa corpo. I movimenti si richiamano, si trasformano l’uno nell’altro, come onde che si inseguono senza mai sovrapporsi del tutto.
È una forma di meditazione attiva, che cerca la chiarezza dei rituali e la libertà dei sogni.
Si resta in ascolto, dentro una soglia che non chiude né apre, ma si espande.
Una coreografia del pensiero che agisce attraverso il fare.
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DAL MARGINE, IL CENTRO SI SCORGE MEGLIO
Il Grande Teatro di Lido Adriano è un progetto che non si risolve in uno spettacolo.
È un processo.
Un respiro lungo anni.
Una meditazione incarnata in una comunità.
La marginalità di questa periferia non è ornamento né tema: è condizione generativa.
Lì si pratica il dharma dell’arte come forma di resistenza condivisa.
Da lì, forse, si può scorgere meglio un possibile mondo nuovo.
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La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza. Questa marginalità, che ho definito come spazialmente strategica per la produzione di un discorso contro-egemonico, è presente non solo nelle parole, ma anche nei modi di essere e di vivere.
Non mi riferivo, quindi, a una marginalità che si spera di perdere – lasciare o abbandonare – via via che ci si avvicina al centro, ma piuttosto a un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza.
Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi.
[ bell hooks, Feminist Theory: From Margin to Center, 1984 ]
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