«La fame di vita diventa fame di linguaggi con cui cercare di acchiapparla»: c’è, in questa illuminante frase di Marco Baliani – raccolta a pagina 74 del volume Con il cuore in bocca, da poco pubblicato con Titivillus – la dichiarazione implicita di una necessità primaria.
Non il lusso intellettuale di un artista che moltiplica registri per esercizio di stile, ma la fame esistenziale di chi, vivendo, cerca strumenti per dire.
Dire non per descrivere, ma per acchiappare qualcosa della vita, per trattenerla un istante, prima che sfugga.
Il linguaggio diventa allora ciò che tenta di colmare la distanza tra ciò che accade e ciò che si può nominare.
Questo libro raccoglie testi d’occasione nati per il teatro: uso ora questo termine nel senso etimologico di luogo di sguardi e visioni.
Più che drammaturgie, sono dispositivi di presenza.
Ed è proprio questa l’intuizione fondativa del teatro di narrazione, che Baliani ha inaugurato con Kohlhaas nel 1989: non rappresentare il mondo, ma restituirgli parola.
Farlo accadere di nuovo, attraverso un corpo vivo che racconta.
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IL CORPO NARRANTE E LA VERITÀ DELLA VOCE
L’attore-narratore, per Baliani, non è un personaggio, non è un testimone esterno: è un luogo di passaggio.
Un corpo che si fa medium tra l’esperienza e la parola. Questo corpo è fragile, concreto, storicamente determinato – eppure capace di risuonare in altri corpi.
È in questa zona liminale che si situa la verità del suo teatro-in-forma-di-libro: non nell’imitazione del reale, ma nella sua reinvenzione incarnata.
Nei testi di Con il cuore in bocca, ogni narrazione si plasma attorno a questa postura.
In Quel giorno i dialoghi – commoventi nella loro carnosa innocenza – tracciano un’oralità domestica, una lingua che contiene pianto e trattenimento, urto e carezza. Le frasi sembrano dette più che scritte, come se restassero in equilibrio tra la memoria e la voce che la riattiva.
In Corpo eretico. Dialogo in tempo presente con Pier Paolo Pasolini, la lingua si fa invece verticale, scandagliando il pensiero, facendo spazio a domande che non cercano risposta. Il dialogo – che è in realtà un monologo al quadrato, un doppio specchio – mette in scena non un’evocazione, ma una vicinanza temporale, un tempo presente condiviso.
Il corpo qui non è mai uno sfondo. È la superficie su cui il linguaggio lascia tracce e da cui le parole emergono.
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NEL DETTAGLIO: CORPO, GESTO, MEMORIA
Nel testo Del coraggio silenzioso, andato in scena solo tre giorni fa – lunedì 16 giugno 2025 – al Ravenna Festival, la figura d’apertura, Rosa Parks, è costruita attraverso il dettaglio. La piega di una mano, il tocco per rimettere a posto gli occhiali che scivolano dal naso: il gesto minimo diventa il centro di un’epica anti-monumentale. È un’estetica dell’attenzione, come non pensare a Roland Barthes quando parlava del punctum nella fotografia: quel dettaglio che punge, che buca la superficie e interroga.
In questa scelta si manifesta una precisa posizione semiotica e, soprattutto, politica: l’universalità passa attraverso il dettaglio incarnato. Scriveva Merleau-Ponty che il corpo non è un oggetto nel mondo, ma il nostro modo di accedere al mondo. In Baliani, la parola si appoggia costantemente a questo dato. Non si lascia quasi mai andare a speculazioni disincarnate. E quando riflette, lo fa dall’interno della materia vivente.
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LINGUE DELL’ASCOLTO, POETICHE DELLO SGUARDO
Ogni testo di questo libro adotta un registro linguistico diverso, ma non per virtuosismo.
È una poetica dell’aderenza: la lingua deve sapersi piegare alla specificità dell’esperienza.
Baliani lascia che la lingua si costruisca nell’incontro tra soggetto e ascoltatore, tra narratore e comunità.
Si parla come si può, come si deve, come si riesce.
Ciò che colpisce, in questa raccolta, è la capacità di affrontare grandi temi – la memoria storica, la giustizia, l’identità – evitando ogni tono moralista. Non si enunciano verità, si pongono sguardi. È lo sguardo che fa la forma. L’autore non si mette mai sopra il materiale narrato, ma in ascolto. E costruisce la scena (anche sulla pagina) come spazio condiviso, mai come palco per sé.
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NEL PRESENTE DEL DIRE
Se vi è una lezione che Con il cuore in bocca offre a chi voglia ascoltare tra le pieghe della voce e della pagina, è che ogni gesto linguistico è, in sé, un atto politico.
Non perché proclami, denunci o mobiliti, ma perché incarna una forma di relazione con il mondo e con l’altro. In Baliani, l’azione teatrale — e, per estensione, la scrittura — si costituisce come pratica etica prima ancora che come operazione estetica: non c’è mai forma che non implichi una responsabilità del dire.
In questo senso, il teatro di Baliani elude tanto la retorica dell’impegno quanto l’autoreferenzialità della sperimentazione linguistica. La sua ricerca si situa in una zona di attrito tra forma e realtà, dove il linguaggio è costantemente sottoposto a verifica biologica. Ogni parola, per esistere, deve trovare un ritmo che la leghi alla vita vissuta. Non c’è retorica della testimonianza, perché il testimone — nella poetica di Baliani — non è colui che racconta ciò che è stato, ma colui che permette che qualcosa accada, ancora e ancora e ancora, nel presente del dire.
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RISCHIARE IL LINGUAGGIO
Questa consapevolezza colloca Baliani in un territorio affine alla riflessione di Jean-Luc Nancy, secondo cui il senso non precede il mondo ma accade nel mondo, ogni volta che un corpo entra in relazione. Il linguaggio, allora, non è mai pura rappresentazione, ma co-costruzione sensibile: è il luogo in cui l’esperienza prende forma condivisibile, il punto in cui il privato può farsi comune senza diventare ideologia. Non si tratta di “dare voce ai senza voce”, ma di creare le condizioni perché ogni voce trovi una propria vibrazione udibile.
Il gesto narrativo — nei testi raccolti in Con il cuore in bocca — non si afferma come affabulazione o effetto, ma come intensità relazionale. In questo senso, ogni testo è un luogo aperto, mai chiuso nel compiuto, ma offerto alla porosità dell’incontro. Parlare, per Baliani, è rischiare il linguaggio: è stare dentro la contraddizione di chi, per dire, deve esporsi, accettare l’inadeguatezza, l’imprecisione, la tensione tra ciò che si vorrebbe e ciò che si riesce.
Così, la fame di linguaggio di cui parla l’autore non è solo tensione poetica, ma bisogno di relazione, di giustizia, di mondo.
Fame, dunque, come metafora di una mancanza che spinge all’invenzione continua di forme capaci di ospitare la complessità dell’umano.
Fame che è, in ultima istanza, desiderio di presenza vera: non quella che riempie la scena, ma quella che la fonda.
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