Il nuovo avanza. Note sul Festival Opera Prima 2025

ph Marina Carluccio

 

Accompagnare un gruppo di persone adolescenti in un laboratorio di sguardo – un attraversamento condiviso del teatro attraverso la scrittura e il pensiero – ha reso ancora più nitida una consapevolezza: lo sguardo non è mai dato, è sempre in divenire.

Non c’è osservazione neutra, ma solo partecipazione che si modula, prende corpo, si trasforma nell’incontro con ciò che accade. Il verbo che più intensamente restituisce questa disposizione è accorgersi.

Un verbo fragile e potente, che non coincide con vedere, né con capire, tanto meno con giudicare: accorgersi è presenza attiva a ciò che ci interroga.

È un gesto di attenzione che apre e che disarma, una forma sottile di co-creazione tra chi agisce e chi guarda, in cui si finisce per abitare, almeno per un attimo, l’esperienza dell’altro da sé.

In questa prospettiva il nome del Festival, Opera Prima, risuona come una dichiarazione di intenti. Non si tratta soltanto di una vetrina per esordi o nuovi lavori, ma di un luogo in cui ciò che è all’inizio – ciò che è aurorale – non appartiene solo alle opere presentate, ma anche a chi le incontra.

È lo sguardo che qui si coltiva a essere inedito.

Sono le mappe percettive a doversi riassestare.

L’opera prima è quella che costringe a ridefinire i propri codici, a lasciarli vibrare accanto a segni ancora instabili, a forme che non rientrano nel già noto.

In questo senso il Festival curato a Rovigo dal Teatro del Lemming con il coordinamento artistico di Massimo Munaro si configura come una soglia, un dispositivo di rivelazione in cui il teatro diventa spazio di apprendimento non su di sé, ma sul modo in cui ci si relaziona all’altro, alla forma, al tempo.

A essere “prime” sono dunque anche le percezioni che si formano a contatto con le opere, le micro-revisioni della sensibilità che esse innescano.

Per questo, parlare di linguaggi ad opera di artistə giovani – come quelli al centro di queste riflessioni – significa interrogarsi non solo su cosa venga detto o mostrato, ma su come ci si dispone ad accoglierlo.

L’opera prima accade quando ci si accorge, quando si è disponibili a non riconoscere subito, a sostare nell’ambiguità, a nominare il non definito come valore.

Ed è in questo spazio sospeso, aurorale e vulnerabile, che si aprono le possibilità più fertili.

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ph Marina Carluccio

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CORPO COME SEGNO

Alcuni degli spettacoli più radicali di questa edizione operano sul corpo come superficie, rifiutando l’illusione mimetica.

In Mine-HaHa di Corsucci e Bernardi, il corpo femminile non è né psicologico né narrativo.

Funziona come un ready-made duchampiano: decontestualizzato, oggetto di un’installazione performativa in cui la teatralità viene surgelata e analizzata.

Il corpo è un segno vuoto che si carica solo nel gesto dello spettatore che vi proietta significato: è un manichino vivente, fragile e lucido, dove la significazione non è più lineare ma reticolare.

Questa ipervisibilità – accentuata dalla rarefazione temporale e dalla sequenza di immagini stagnanti – produce un effetto estetico che si situa tra la fotografia di Cindy Sherman e le performance-installazioni di Vanessa Beecroft: corpi iper-esposti ma indecifrabili, estetizzati ma mai erotici, iconici ma svuotati di pathos.

Il linguaggio drammaturgico si frantuma in impressioni, in grumi visivi, e proprio per questo si apre alla ricezione differita: non comunica, riluce.

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ph Loris Slaviero

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CORPO COME SONDA

Un simile meccanismo si ritrova, per vie opposte, in No di Annalisa Limardi, dove l’elemento coreutico si fa strumento di risonanza emotiva e sonora.

Qui il corpo non è mai allegoria né rappresentazione: è materia sensibile che vibra, misura, propaga.

È ritmo interno, campo d’onda, superficie di trasmissione.

Non c’è progressione, ma una condizione: una durata densa, abitata da micro-variazioni e fratture impercettibili, in cui il gesto prende il posto del significato, sostituendo all’evento narrativo la qualità intensiva di una presenza.

Il lavoro agisce come una partitura musicale per tensioni e rilasci, senza vero sviluppo lineare ma con un’ossessiva attenzione alla temperatura percettiva di ogni azione.

Ogni passo, ogni spostamento d’aria, ogni pressione sul suolo diventa segno da decifrare non con la mente ma con il sistema nervoso, in un ascolto corporeo che precede la comprensione e in parte la elude.

È una grammatica del battito, una sintassi pulsata dell’inesplicabile, dove a contare non è ciò che si intende, ma ciò che attraversa.

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ph Marina Carluccio

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IL GESTO SOSPESO

Part One di Anna Ozerskaia si offre come una miniatura coreografica di intensità rara: poco più di dieci minuti in cui tutto è calibrato al millimetro, senza nulla che sia accessorio.

Un frammento minuscolo eppure dilatato, che si concentra sul gesto come campo di trasmissione, sulla ripetizione come esercizio di ascolto, sull’infinitesimale come principio di visione.

L’articolazione della coreografia lavora per variazione e intensificazione, costruendo un movimento teso tra prossimità e distanza.

Il corpo si protende verso l’altro da sé senza mai raggiungerlo, in una tensione trattenuta che sembra evocare, con naturalezza e potenza, la celebre figura centrale del Giudizio Universale michelangiolesco: quell’arto che si stende senza toccare, trattenendo nel vuoto la possibilità di ogni relazione futura.

È in questa sospensione che si rivela la forza del lavoro: nel gesto che non si chiude, ma resta aperto come domanda.

Coreografia, narrazione, la semplice e struggente canzone finale: ogni elemento si intreccia in un disegno essenziale in cui il ritorno di ogni movimento è ogni volta diverso.

La ripetizione, lontana dall’essere meccanica, genera progressivi slittamenti percettivi, piccole metamorfosi nella qualità dell’energia, nella direzione dello sguardo, nell’intensità del respiro.

Non si assiste tanto a un’esecuzione, quanto a una lenta emersione: ogni ripresa del gesto è uno scarto impercettibile che altera la qualità del tempo, lasciando affiorare una soglia, una fenditura nello spazio.

Nella sua apparente leggerezza, custodisce una densità quieta, come se nel minimo spostamento di un corpo si potessero intuire rivoluzioni interiori.

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illustrazione di Beatrice Pizzardo

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IL TEATRO COME MACCHINA DEL TEMPO

Laddove Part One si offre come miniatura, Attorno a Troia del Teatro del Lemming appare come un affresco: visionario più che narrativo, in cui il Mito si mescola alla Storia, la traccia documentale all’evocazione simbolica.

Nonostante la densità dei riferimenti, il dispositivo scenico è costruito con radicale sintesi: pochi oggetti, pochi segni, un campo d’azione rigoroso e vibrante.

La parola – composta per frammenti epici, storici, lirici – viene attraversata da un trattamento vocale e acustico che ne sospende a tratti il senso immediato per aprirla a una dimensione altra, prossima al canto, all’invocazione, al rito.

Qui il teatro si fa forma di durata più che racconto: non esposizione lineare degli eventi ma emanazione temporale, come se la scena fosse il luogo in cui il passato e il presente si compenetrano senza soluzione di continuità.

La guerra di Troia – echi di sangue, di rovine, di canto e di destino – non abita un tempo remoto, ma attraversa i corpi che oggi la pronunciano, la rivivono, la scompongono.

Significativa, in questa prospettiva, la presenza in scena di giovani performer: non un dato solamente didattico, né un segnale puramente anagrafico, ma una dichiarazione estetica e politica.

I loro corpi trasparenti sono da intendersi come aperture.

Attraverso di loro, la tradizione non viene citata, ma rigenerata: il Mito si reincarna, non per essere rappresentato, ma per essere respirato.

Attorno a Troia è un teatro che agisce per contatto: tra tempi, tra generazioni, tra lingue.

Ogni frammento testuale si fa corpo e suono; ogni azione si iscrive in uno spazio che non è solo fisico ma percettivo. Nulla viene spiegato, ma tutto si offre come traccia da attraversare.

È un teatro che non si colloca dentro una cronologia, ma lavora nella soglia: tra il già stato e il possibile, tra il ricordo e la premonizione.

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ph Loris Slaviero

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L’IO IN SCENA

Lo sguardo contemporaneo è costantemente interpellato dal proprio riflesso.

Il teatro che assume come materia l’esperienza personale non si propone più come confessione, ma come esercizio di rifrazione: una costruzione che si mostra mentre si smonta, un’indagine sull’identità intesa come zona di passaggio.

In Quello che non c’è di Giulia Scotti, la presenza scenica dell’io è un movimento, un dispositivo ottico che cambia fuoco e prospettiva, come una lente che ruota attorno al proprio asse.

L’autobiografia non è l’origine del discorso, ma il suo effetto.

La narrazione avanza per torsione, costruendo una spirale in cui ogni ritorno ai materiali originari – ricordi, immagini, gesti, parole – apre a un nuovo punto di fuga, come in un disegno a più strati.

L’opera si compone di frammenti: l’illustrazione, il fumetto, il diario, la parola detta e quella scritta, la voce che racconta e quella che dubita.

Ogni elemento si innesta in una struttura precisa, ma continuamente interrogata.

Il linguaggio, per quanto calibrato, resta poroso.

L’apparato visivo, che gioca con l’estetica della grafica digitale e del disegno intimo, non produce un effetto di compiutezza, ma amplifica lo slittamento tra ciò che si mostra e ciò che si ritrae.

È un’architettura del dubbio, dove ogni scelta compositiva – anche la più nitida – è attraversata da una domanda.

Quello che non c’è si muove sul filo sottile che separa la rivelazione dall’artificio, la sincerità dall’auto-messa in scena. Ma è proprio in questa tensione che il lavoro trova il suo respiro: nella consapevolezza che raccontarsi non è fissarsi, ma trasformarsi nel racconto stesso.

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ph Loris Slaviero

UN FESTIVAL PER MOLTI SGUARDI

Queste opere – nella loro assoluta diversità – condividono una cosa: non chiedono allo spettatore solamente di capire, ma di abitare la scena con la propria sensibilità, la propria sensorialità, la propria storia.

In ciascuna di esse, lo spazio della ricezione non è passivo, ma generativo.

Questo è ciò che è emerso con cura e forza anche nel laboratorio di sguardo con il gruppo di valorose persone adolescenti: sguardi spiazzati e spiazzanti, domande divergenti, parole non ancora irrigidite in codici e cliché.

Ogni riflessione – pubblicata o rimasta solo nel dialogo – ha contribuito ad allargare il reciproco percepire.

Il nuovo non avanza per frattura, ma per slittamento del campo di senso: il Festival Opera Prima non è solo uno spazio in cui il nuovo si presenta, ma un luogo in cui ci si allena ad accorgersene.

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