Nel primo ambiente di Iliade #1 Cavalli, debuttato ieri sera presso la Collezione di Anatomia Veterinaria dell’Università di Parma e in replica fino al 13 giugno (esclusi il 7 e l’8 giugno), Lenz Fondazione costruisce una spazialità minuziosamente anti-eroica, in cui la tragedia si sottrae a ogni verticalità per manifestarsi come polverizzazione e accadimento a bassa voce, in prossimità del suolo.
Il pavimento interamente coperto di sale bianco non è neutro: è traccia cristallizzata di ciò che resta dopo l’evaporazione — un’evidenza minerale del trauma, ma anche uno spazio che impedisce ogni appoggio stabile, un palcoscenico anti-teatrale.
Gli interpreti, rivestiti in abiti bianchi e neri ornati da pizzi, tulle, nastri, si collocano fuori dal tempo: evocano una specie di lutto cerimoniale, dove il codice barocco del costume viene ridotto a citazione muta, senza che resti alcuna gerarchia tra vita e oggetto. I corpi si muovono tra mangiatoie in ferro nero, all’interno delle quali si trovano cubi bianchi — forma pura e muta dell’alimentazione — che vengono leccati dagli attori.
Il gesto della leccata non è ironico, né affettivo: è l’istituzione di un contratto tra il corpo attoriale e l’oggetto, un atto performativo che nega ogni metafora, ogni trascendenza.
Non si tratta di “cibo” in senso simbolico, ma di contatto, viscosità, bestialità.
La luce — mai fissa — respira insieme alle presenze performanti. Il fade in/fade out scandisce un’oscillazione tra manifestazione e latenza, tra ciò che si lascia vedere e ciò che resta nell’ombra.
L’elemento scenico si fa respirante, come se l’ambiente stesso avesse un diaframma. Si genera così una forma di prossemica radicale: lo spettatore non osserva, ma è osservato dalla scena, la cui prossimità intensifica ogni riflesso involontario, ogni minimo rumore corporeo del pubblico.
Attorno, in vetrine, scheletrini animali installano un controcampo archeologico: la storia naturale del teatro, la sua zoologia residuale. Ma è sotto i grandi scheletri di cavalli che le Figure agiscono per lunghi minuti: si costruisce qui una verticalità negata, in cui il cranio equino diventa sovrastruttura non simbolica, ma gravante. Lo spazio angusto deforma la cinetica dei performer, costringendoli a una lentezza innaturale, che diventa sostanza stessa della densità scenica.
Carlotta Spaggiari, in un momento di sospensione, pronuncia due enunciati che torneranno poi: “Il destino mi ha tolto l’uso della voce” e “Sento l’aldilà”. La voce come organo di autorità viene revocata dal “destino” — termine arcaico, ma qui pronunciato come dato clinico. L’“aldilà” è sentito, non creduto: non c’è escatologia, ma intensificazione percettiva.
.
ANATOMIA DELLA VIOLENZA. ESTETICA DEL DISASSEMBLAGGIO
Un muto spostamento conduce il pubblico in un Museo Anatomico Veterinario: luogo reale, quindi doppio, poiché già dedicato alla contemplazione della materia morta. La vetrinizzazione del corpo è già istituita. Gli armadi contenenti modellini di interiora, le superfici lucide dei tavoli anatomici, le luci fredde e bianche generano una semantica di laboratorio: lo spazio non “rappresenta”, ma disseziona.
Qui, l’azione scenica si frammenta in gesti parossistici: Spaggiari colpisce con forza le piastrelle con le scarpe — una sonorità ossessiva che attacca lo spazio sonoro come una perforazione. I performer — ancora in abiti bianchi e neri, ora con tulle più trasparente, più esposto — manipolano ossa vere, o verosimili, sul tavolo anatomico. Le disposizioni ossee non formano composizioni iconiche, ma servono a costruire un lessico gestuale della scomposizione.
L’elemento organico è potenziato dalla gelatina ambrata con cui gli attori si ricoprono parzialmente: un’ambra che non conserva, ma imbratta. La gelatina funziona qui come fluido che oscura ogni dicotomia tra pulito e sporco, vivo e morto.
L’enunciazione verbale è sempre scandita con veemenza. Il dire non invoca, non spiega, non consola: produce un attrito fonico, un’esposizione della parola al rumore.
.

.
DISARTICOLAZIONI COREOGRAFICHE. IL CORPO COME SINTOMO
Nel terzo ambiente, speculare al precedente, una sala che funge da spazio coreografico e transitorio, avviene una ridefinizione semantica del corpo attoriale.
Aldo Rendina, figura longilinea e destrutturata, si muove come un Pierrot disarticolato in un pas à deux con Sandra Soncini: qui il corpo si fa sincope, articolazione dell’inarticolabile. Non c’è danza, né controdanza, ma un attrito coreografico che disegna, nel vuoto, una grammatica dell’instabilità. Le posture si frangiano, le direzioni si negano a vicenda, ogni gesto sembra già successivo al proprio fallimento. In questo sistema motorio, che rifiuta sia la sintassi del movimento che la plasticità della posa, si istituisce un’estetica dell’interferenza, dove l’altro è continuamente ostacolo e supporto, peso e soglia.
Il corpo, così, diventa luogo di negoziazione tra il gesto e il vincolo: Rendina e Soncini sono come contaminati, come se le loro traiettorie fossero infettive. Non vi è comunicazione, ma co-esistenza dissonante. Il Pierrot, qui, non è clown malinconico, ma residuo post-organico, macchina danneggiata che tenta la replica di un codice irrecuperabile.
La musica incalzante e le luci verdi e bianche contribuiscono a una dialettica ossimorica tra il movimento e il suo fallimento. Lo scontro non è narrativo, ma biomeccanico: i corpi sembrano attraversati da possibilità e impossibilità motoria, come se la volontà soggettiva non fosse sufficiente a garantire l’azione.
Questo segmento coreografico suggerisce un’estetica dell’incongruo, in cui il corpo non è rappresentazione di un soggetto ma campo di tensioni, scorie, irregolarità.
.
SANGUE, CUORE, SEDIE. EPILOGO EMATOLOGICO
Nel quarto e ultimo spazio, la composizione cromatica vira verso il rosso scuro e l’argento: le sedie imbottite, i tavoli metallici, i secchi di sangue versato lentamente sul pavimento. Il ritmo rallenta: la dilatazione temporale dell’ultima azione conferisce allo spazio una consistenza sacrale, ma non mistica.
Gli attori — in abiti lunghi e neri — occupano quattro sedie: una ciascuno, più una centrale vuota, su cui viene deposto un cuore di carne. Questo gesto — al contempo anatomico, liturgico e clinico — restituisce l’organo alla scena, ma non al corpo. Il cuore come oggetto esterno, quasi testimonianza inerte dell’azione che è stata.
Lo scivolamento finale dei performer, da posizione seduta fino al pavimento cosparso di sangue, non contiene alcuna catarsi. È una dissipazione della verticalità, un ritorno a uno stato orizzontale e viscoso, che chiude il ciclo performativo non con una morte simulata, ma con una perdita di quota, di forma.
.
ZOOLOGIA DELLA SCENA COME SCIENZA SENZA OGGETTO
Iliade #1 Cavalli costruisce un’operazione non rappresentativa, ma sintomatica: la guerra omerica si disinnesca nella materia, si trasduce in gesto elementare, in anatomia senza metafora. La bestialità evocata dal titolo non si manifesta solo come figura, ma come logica scenica: le mangiatoie, i corpi, i gesti, le ossa, i fluidi compongono un inventario che sfugge alla narrazione, ma non al rito.
La scena di Lenz, in questo primo frammento di Iliade, è ancora una volta un dispositivo che espone il corpo e lo guarda senza pietà, senza giudizio, senza salvezza.
.

.