C’è una doppia corrente che sta attraversando, in queste settimane di maggio e giugno, la città di Ferrara.
Un fluire discreto ma tenace: da Ferrara Off — e dal suo Bonsai Festival — parte un duplice movimento che si potrebbe chiamare, con un gioco di specchi, allargamento e allagamento.
Due pratiche complementari dell’aprire: una che espande, una che travolge.
Entrambe necessarie, entrambe generative.
Entrambe, soprattutto, messe in atto con cura e dedizione da una piccola, vivissima comunità.
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L’ALLARGAMENTO COME PRATICA DEL POSSIBILE
Bonsai Festival — fin dal suo nome — suggerisce una forma di concentrazione che non rinuncia alla potenza.
Come un bonsai, infatti, è piccolo ma nutrito, cesellato, denso.
L’edizione 2025 si presenta come una mappa polifonica di estetiche, linguaggi, tematiche che si sfiorano e si contraddicono, aprendosi a una pluralità che non ha il vezzo dell’accumulo, ma l’umiltà dell’ascolto.
Un’occhiata al programma basterebbe a restituire la varietà: accanto a proposte che interrogano i linguaggi del corpo, della musica, della narrazione, compaiono titoli che già nel nome tradiscono un’attitudine a scardinare, con grazia o provocazione, le cornici del senso comune.
Non si tratta solo di generi diversi, ma di dispositivi che attivano forme di sguardo differenti.
È l’estetica come pratica ecologica: allargare significa, qui, disinnescare i pregiudizi di genere e di stile, permettere a ogni spettatrice e spettatore di ampliare il proprio vocabolario sensibile.
Una semiotica gentile, potremmo dire, che invece di definire il segno, ne prolunga i contorni, lasciandolo fluire verso altri sistemi di senso.
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L’ALLAGAMENTO COME ROVESCIAMENTO DELLE FORME
Ma Bonsai non si limita ad accogliere.
Alcune delle sue proposte, come Ode alla Distruzione a cui abbiamo assistito il 18 giugno, in prima nazionale, compiono un gesto ancora più radicale: forzano, sfondano, travolgono.
Sono esperienze che allagano il campo estetico, che lo rendono impraticabile nei suoi confini abituali.
Il collettivo SuckerPunch — formato da Iacopo Loliva e Manuel Kiros Paolini, con le musiche di Jonathan Bonny e il testo di Marcus Peter Tesch — costruisce un’opera che non si limita a tematizzare la fine, ma la abita fino al parossismo.
L’inizio è già un congedo: si leggono i finali di libri più o celebri, come se lo spettacolo intero fosse un epilogo perpetuo. In questo gesto, c’è già un’apparente pars destruens: sabotaggio dei codici narrativi, sospensione dell’arco evolutivo della storia, invito ad accettare che la fine non è conclusione, ma soglia.
Il corpo, in scena, lavora per fratture.
I due performer si lanciano, si sollevano, si fanno e si disfano in un pas à deux ruvido e a tratti potentemente muscolare.
Non c’è seduzione, non c’è grazia classica: ci sono lotta, fatica, irrisione.
Ogni gesto è una spinta o una caduta.
Le prese, le rotazioni, i corpi gettati nello spazio non servono a dimostrare virtuosismo, ma a ricordare che ogni equilibrio è precario.
Il tono è apocalittico e surreale, attraversato da un’ironia che scarnifica i miti contemporanei dell’amore, del matrimonio, della genitorialità.
“Questa è un’altra scena”, dicono, poi la descrivono e poi la agiscono: un dispositivo metateatrale che richiama esplicitamente Brecht, ma aggiornato al registro della stand-up, della comicità devastante che non vuole liberare, ma contaminare.
Il tutto non è raffinato, nel senso convenzionale del termine. È apparentemente sporco, stracolmo di significanti, storto. Ma proprio in questo eccesso trova il suo spazio il sentire: si ride, si riflette, si avverte la vibrazione do forme organiche, vive, che agiscono nello spazio condiviso.
È l’allagamento ciò che più serve, soprattutto in un tempo di brutali omologazioni e iper-semplificazioni qual è quello che stiamo ogni giorno costruendo: quello che rompe gli argini per costringerci, nel qui e ora, a ridefinirli.
IL DOPO COME CAMPO COMUNE
Organicamente efficace è stato, in questo senso, il dopo.
La conversazione con il pubblico, vivace e partecipata, ha mostrato che qualcosa si era mosso: non tanto un giudizio (è piaciuto / non è piaciuto), quanto una molteplicità di interpretazioni, domande, aperture.
Sembra proprio, da questo nostro primo affaccio, che Bonsai Festival non si limiti a presentare spettacoli, ma coltivi comunità.
Il pubblico non è destinatario, ma co-autore di senso.
L’analisi condivisa diventa allora una pratica critica che non ha bisogno di specialismi: tutti possono entrare, parlare, confrontarsi.
È questo il cuore dell’allargamento: creare le condizioni per l’incontro, per il pensiero che si scambia e si espone.
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UN’ARTE DELL’ACCOGLIENZA
In tutto questo risalta la figura di Giulio Costa, direttore artistico del Festival e regista di Ferrara Off. La sua presenza è riservata ma evidente: accoglie il pubblico all’ingresso, presenta gli spettacoli senza retorica, si ferma a parlare con chiunque voglia approfondire. È una figura di mediatore, nel senso più alto del termine: qualcuno che sa creare spazi, lasciare che accadano cose.
Il suo lavoro ricorda, per certi versi, quello di Ariane Mnouchkine al Théâtre du Soleil: anche lì, l’arte non comincia con l’apertura del sipario, ma con l’incontro tra umani. È nella qualità di quella relazione — fatta di attenzione, apertura, cura — che può fiorire il teatro come gesto condiviso.
Allargare e allagare, dunque.
Due movimenti che non si oppongono, ma si intrecciano.
Bonsai appare, oggi, come uno dei luoghi dove questo intreccio si fa visibile, sensibile, abitabile.
È stato bello avere incontrato questo che non è solo un Festival, ma un laboratorio affettivo, una palestra del sentire, una grammatica del possibile. In piccolo, come un bonsai.
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