Spazi vuoti, figure di spalle: Hammershøi e la poetica del silenzio

Vilhelm Hammershøi, Interno, Strandgade 30, 1902. Filadelfia, collezione privata - © Ann Marie Casey Photography, LLC

 

C’è tempo solo fino a domenica 29 giugno per immergersi in questo silenzio sospeso, per lasciarsi attraversare da quella calma nordica che non è pace, ma attesa: la mostra Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia – ospitata nelle sale di Palazzo Roverella a Rovigo e da noi visitata nelle giornate del Festival Opera Prima– non è una semplice retrospettiva, ma una soglia percettiva, un rito di passaggio che porta dentro la materia rarefatta dello sguardo.

Un invito a rallentare, a sottrarsi, a osservare il mondo non per quello che mostra, ma per ciò che – silenziosamente – trattiene.

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Vilhelm Hammershøi, Luce del sole nel salotto III. Strandgade 30, 1903. Stoccolma, Nationalmuseum – © Nationalmuseum / foto Cecilia Heisser

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STANZE VUOTE, STANZE PIENE

I celebri interni di Vilhelm Hammershøi – con superfici monocrome illuminate da una luce che sembra consistere più di un’assenza che di una fonte – sono icone del visibile che diventa esperienza.

La mostra non si limita a esporli: li interroga, li incornicia nel dialogo fitto con una costellazione di artisti italiani ed europei che, tra Otto e primo Novecento, hanno cercato – ciascuno a modo proprio – un’arte che fosse silenzio incarnato.

L’esattissimo titolo, i pittori del silenzio, si fa chiave interpretativa: il silenzio qui non è mai solo negazione del suono, ma linguaggio.

Come in 4’33’’ di John Cage, il silenzio diventa struttura, superficie attiva: non vuoto da colmare ma campo sensibile, dove ogni micro-suono, ogni movimento d’aria si trasforma in evento.

Così per Hammershøi: in ogni sua tela si ascolta il fruscio del parquet, il brusio muto della carta da parati, lo scarto tra una donna di spalle e la finestra che non sta guardando.

È un teatro dell’assenza, dove ogni dettaglio è scrittura.

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Georges Le Brun, L’uomo che passa, 1900-1903. Verviers, Musée de Verviers – © Musées de Verviers / foto J. Spitz

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LO SGUARDO COME LUOGO

Il percorso espositivo si rivela esperienza spaziale e sensoriale: le opere non gridano, esigono che sia il visitatore a farsi silenzioso.

Figure di spalle, porte socchiuse, mobili che sembrano ritrarsi. Georges Le Brun, con il suo L’homme qui passe, è l’emblema: l’uomo non si mostra, si dissolve. La pittura diventa etica della sparizione.

Questo sottrarsi è anche un posizionamento filosofico. Non si tratta di rappresentare il mondo, ma di lasciarlo accadere.

È ciò che succede in molte pratiche contemporanee che fanno del luogo il centro dell’esperienza: pensiamo -un esempio fra molti- alla rarefazione di James Turrell.

I suoi ambienti immersivi non sono dissimili, nella loro radicalità percettiva, dalle stanze di Hammershøi.

Se Turrell costruisce spazi in cui lo spettatore diventa occhio immerso nel colore, Hammershøi – con mezzi tecnici del tutto diversi – ottiene un effetto analogo: lo sguardo si adatta, si dilata, si abitua al non-contrasto, all’ombra, alla calma.

In entrambi i casi, lo spazio non è tanto rappresentato quanto evocato. E ciò che conta è l’esperienza dello spettatore: la sua esposizione a una soglia percettiva in cui il tempo sembra rarefarsi, decantare.

Qui il punctum dell’opera non è un dettaglio iconico, ma il modo in cui l’ambiente si rivela nel suo lento farsi presenza.

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James Turrel, Breathing Light, 2013

UNA MOSTRA DA ABITARE

Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia non si visita, si abita.

È una mostra che lavora sul ritmo interiore, sulla sospensione.

Invita a riconoscere il vuoto come forma.

A ritrovare, nello specchio muto delle stanze dipinte, una versione scomposta e verissima di sé. Una mostra che, nella sua apparente quiete, ci riguarda.

Soprattutto ora, nel caos del nostro presente che impazzisce.

C’è tempo solo fino a domenica 29 giugno per entrare in quella lentezza che resiste al mondo, per farsi toccare da una pittura che non parla, ma ci chiama.

 

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