
C’è tempo solo fino a domenica 29 giugno per immergersi in questo silenzio sospeso, per lasciarsi attraversare da quella calma nordica che non è pace, ma attesa: la mostra Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia – ospitata nelle sale di Palazzo Roverella a Rovigo e da noi visitata nelle giornate del Festival Opera Prima– non è una semplice retrospettiva, ma una soglia percettiva, un rito di passaggio che porta dentro la materia rarefatta dello sguardo.
Un invito a rallentare, a sottrarsi, a osservare il mondo non per quello che mostra, ma per ciò che – silenziosamente – trattiene.
.

.
STANZE VUOTE, STANZE PIENE
I celebri interni di Vilhelm Hammershøi – con superfici monocrome illuminate da una luce che sembra consistere più di un’assenza che di una fonte – sono icone del visibile che diventa esperienza.
La mostra non si limita a esporli: li interroga, li incornicia nel dialogo fitto con una costellazione di artisti italiani ed europei che, tra Otto e primo Novecento, hanno cercato – ciascuno a modo proprio – un’arte che fosse silenzio incarnato.
L’esattissimo titolo, i pittori del silenzio, si fa chiave interpretativa: il silenzio qui non è mai solo negazione del suono, ma linguaggio.
Come in 4’33’’ di John Cage, il silenzio diventa struttura, superficie attiva: non vuoto da colmare ma campo sensibile, dove ogni micro-suono, ogni movimento d’aria si trasforma in evento.
Così per Hammershøi: in ogni sua tela si ascolta il fruscio del parquet, il brusio muto della carta da parati, lo scarto tra una donna di spalle e la finestra che non sta guardando.
È un teatro dell’assenza, dove ogni dettaglio è scrittura.
.

.
LO SGUARDO COME LUOGO
Il percorso espositivo si rivela esperienza spaziale e sensoriale: le opere non gridano, esigono che sia il visitatore a farsi silenzioso.
Figure di spalle, porte socchiuse, mobili che sembrano ritrarsi. Georges Le Brun, con il suo L’homme qui passe, è l’emblema: l’uomo non si mostra, si dissolve. La pittura diventa etica della sparizione.
Questo sottrarsi è anche un posizionamento filosofico. Non si tratta di rappresentare il mondo, ma di lasciarlo accadere.
È ciò che succede in molte pratiche contemporanee che fanno del luogo il centro dell’esperienza: pensiamo -un esempio fra molti- alla rarefazione di James Turrell.
I suoi ambienti immersivi non sono dissimili, nella loro radicalità percettiva, dalle stanze di Hammershøi.
Se Turrell costruisce spazi in cui lo spettatore diventa occhio immerso nel colore, Hammershøi – con mezzi tecnici del tutto diversi – ottiene un effetto analogo: lo sguardo si adatta, si dilata, si abitua al non-contrasto, all’ombra, alla calma.
In entrambi i casi, lo spazio non è tanto rappresentato quanto evocato. E ciò che conta è l’esperienza dello spettatore: la sua esposizione a una soglia percettiva in cui il tempo sembra rarefarsi, decantare.
Qui il punctum dell’opera non è un dettaglio iconico, ma il modo in cui l’ambiente si rivela nel suo lento farsi presenza.
.

.
UNA MOSTRA DA ABITARE
Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia non si visita, si abita.
È una mostra che lavora sul ritmo interiore, sulla sospensione.
Invita a riconoscere il vuoto come forma.
A ritrovare, nello specchio muto delle stanze dipinte, una versione scomposta e verissima di sé. Una mostra che, nella sua apparente quiete, ci riguarda.
Soprattutto ora, nel caos del nostro presente che impazzisce.
C’è tempo solo fino a domenica 29 giugno per entrare in quella lentezza che resiste al mondo, per farsi toccare da una pittura che non parla, ma ci chiama.