Il teatro accade, talvolta, là dove meno te lo aspetti.
Non come sorpresa o dislocazione strategica, ma come necessità vitale: il bisogno di ricucire la geografia dell’umano con quella del vivente.
We did it! di Ateliersi, ultimo atto della Stagione Agorà, si è compiuto sabato 31 maggio negli spazi esterni di Borgo Digani, nei pressi di Argelato (BO): questo luogo, rifugio e laboratorio per persone che affrontano la fragilità, non è stato solo spazio scenico ma membrana viva, organo sensibile, attraversato dal gesto artistico e, con esso, reciprocamente amplificato.
Scegliere di concludere qui una Stagione teatrale significa affermare con delicatezza e forza una poetica del decentramento: dell’invisibile come centro mobile dell’esperienza.
E significa anche restituire al teatro una delle sue vocazioni più profonde: essere pratica collettiva di prossimità, capace di riscrivere le mappe, di abitare le intercapedini tra arte e vita.
In un tempo in cui le narrazioni dominanti tendono a marginalizzare ciò che non è immediatamente produttivo o visibile, portare il teatro in un contesto come Borgo Digani equivale a riconoscere valore e potenza a quelle esistenze che, nella loro apparente fragilità, custodiscono forme preziose e peculiari di esperienza.
Chiudere qui una Stagione non è dunque un gesto simbolico, ma una scelta politica e poetica: un atto di alleanza, un esercizio di cura.
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CORPI CHE COMPIONO LINGUAGGIO
Entrando nello spazio, tra gli alberi, lo spettatore si trova non di fronte, ma attorno al performer.
È un teatro spalancato, poroso.
Guardiamo, ma siamo anche guardati: più ancora, chiamati in causa.
L’attore ci aggancia e attraversa con lo sguardo, diretto e alternato.
Parla di esperienze eco-sostenibili, di scelte alternative di vita, di pratiche quotidiane che tentano di ricucire i legami spezzati tra specie, tra umani e non-umani.
Lo fa con veemenza e passione sincera — ed è forse proprio in questa intensità che si apre un nodo critico: lo spettatore si trova, talvolta, a ricevere visioni forti, posizioni nette, senza sempre avere lo spazio-tempo di disarticolarle, di rielaborarle attraverso il filtro del linguaggio. Come se la presa di posizione, pur nobilmente radicata, talvolta potesse appannare l’ambiguità necessaria all’arte, che molto si nutre di ciò che oscilla. È la grammatica, più che la tesi, a costituire il vero punctum dell’arte antichissima e impermanente del teatro.
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DIRE È FARE: AUTOBIOGRAFIA DI MOLTI
Il racconto, tuttavia, non è lineare.
L’autore-performer costruisce un’autobiografia che non si accontenta della cronologia né della coerenza. Piuttosto, è una mitopoiesi contemporanea, una narrazione plurale fatta di voci altre, di citazioni invisibili, di brani orali raccolti e restituiti.
In questo senso, We did it! sembra evocare ciò che a inizio anni Sessanta ci ha spiegato J.L. Austin: dire è fare, ma anche essere fattə da ciò che si dice.
Il linguaggio non descrive soltanto le cose, le convoca: dunque, le fa esistere.
La performance intreccia due registri distinti: uno narrativo, colloquiale, concreto; l’altro lirico, sospeso, intermittente come il respiro della Terra.
In questo ritmo alterno, fatto di pieni e vuoti, si inscrive la possibilità di un terzo spazio, in cui l’io narrante non è più uno, ma molti.
I suoi gesti — stilizzati, obliqui, scultorei — rimandano a una grammatica fisica che non è mai puramente funzionale. La postura diventa ideogramma, cartografia interna, danza minima dell’essere.
In certi momenti, le vicende narrate evocano Due di due di Andrea De Carlo, ma qui trasposte in una chiave postmoderna e internazionale, nutrita di nomadismi urbani, teorie ecologiche e accenti trans-linguistici.
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COLTIVARE LA VULNERABILITÀ
Incontrare e raccontare modi diversi di prendersi cura dei sistemi di relazione tra organismi viventi: questo il nucleo generativo dello spettacolo, non enunciato tematico ma tensione latente, struttura sottile che tiene insieme gesto, voce, suono e ascolto.
Prendersi cura non è, qui, gesto addolcito o (auto)consolatorio, ma atto politico di presenza, forma di coabitazione attiva con la complessità del vivente. Significa assumere il peso delle connessioni, coltivare la vulnerabilità come condizione relazionale, riconoscere in ciò che è altro da sé — umano o non umano — una possibilità di esistenza plurale.
Nel fluire delle parole, che non spiegano ma aprono varchi, emergono immagini che non appartengono al dominio della visione, ma a quello della mente condivisa, della risonanza. Sono immagini che attraversano i corpi e si depositano nella memoria come idee incarnate.
E poi, improvvisa, una dichiarazione che disarma: “È stata la gioia, più che gli studi sulla cattura del carbonio, a guidarci”. La tecnica si ritrae, la scienza cede il passo all’affetto. È la gioia — come forza generativa, come scintilla politica — a guidare il progetto, a indicare una forma altra di responsabilità ecologica, fondata sull’alleanza.
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FORME DI MILITANZA POETICA
Il teatro, in questa forma, si fa esercizio di immaginazione etica: non produce illusioni, ma costruisce mondi mentali dove la coesistenza diventa praticabile.
È un teatro che fabbrica paesaggi interni, che si riverberano nel silenzio tanto quanto nella parola, nella memoria tanto quanto nei rumori del presente.
Anche i trattori che attraversano la scena acustica non sono rumori di disturbo, ma agenti scenici involontari, vettori di realtà che amplificano il campo percettivo. In questa apertura radicale al contesto, We did it! mette in atto una vera ecologia della scena: permeabile, situata, responsiva.
We did it! si inscrive a pieno titolo nelle traiettorie già tracciate da Andrea Mochi Sismondi e Fiorenza Menni, le cui pratiche artistiche e teoriche intrecciano pensiero ecologico radicale, performatività del linguaggio, riflessioni post-antropocentriche e atti di cura come forme di militanza poetica.
Alla fine, ciò che questa creazione in movimento sembra suggerire è che non si tratta tanto di rappresentare il mondo, quanto di prenderne parte — con responsabilità, immaginazione e delicatezza.
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