In un’epoca che confonde facilmente la pluralità con l’accumulo, la Direzione Artistica di Valentina Romito per l’Umbria Danza Festival -incontrata a Perugia nell’ultimo fine settimana dell’edizione 2025, dal 27 al 29 giugno– si distingue per rigore e visione.
È un Festival che vuole dare forma al possibile, nel senso più concreto e generativo dell’espressione: uno spazio-tempo in cui i corpi condividono un lavoro che si fa discorso, in senso foucaultiano – cioè articolazione produttiva di potere e sapere – e al contempo luogo di una pratica quotidiana e situata del movimento e dell’esperienza.
Il progetto curatoriale si assume la responsabilità di instaurare ciò che Jacques Rancière definisce «regime del sensibile»: un modo di organizzazione delle evidenze che determina il rapporto fra ciò che, in una data epoca o in un determinato contesto (in questo caso: la comunità riunita attorno al complesso medievale di Sant’Anna di danzatori e affini ma anche -nota di gran merito- di pubblico vero) è sensibile e ciò che non è sensibile, fra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile e -di conseguenza- fra ciò che è enunciabile e ciò che non lo è.
Per inciso, e per chiarezza: il pubblico vero è presente non Per Grazia Ricevuta, ma per la varietà intrinsecamente accogliente della programmazione.
Fine dell’inciso.
Per chiarezza (e per esempio): si è visto lo spettacolo Cosmorama di e con Nicola Galli, in scena insieme a Rafael Candela, e dunque se ne è potuto parlare, perché la Direzione Artistica ha deciso di invitarlo. Se così non fosse stato, gli artisti non avrebbero potuto dir la loro e noi non avremmo avuto modo di dir la nostra sul loro dire.
Fin qui, nulla di nuovo: questo è ciò che fa, con tutta evidenza, qualsiasi curatore o direttore artistico, illuminato o meno, di qualunque Festival o rassegna, grande o piccola che sia. Quel che pare doveroso sottolineare, in questa precisa occasione, è l’intenzione (nell’accezione ancora una volta etimologica di in-tensione, di spinta che dall’interno del soggetto muove verso l’altro da sé), che nel caso dell’Umbria Danza Festival si fa progettualità.
E si fa luogo, direbbe Michel de Certeau.
In questo quadro, il Festival si offre come un campo d’azione tra etica ed estetica, tra corpo e pensiero, tra accadimento e durata.
La Direzione Artistica si configura come gesto intenzionale e intenzionato – un atto di apertura verso l’altro, che si espone al rischio dell’alterità.
Qui la danza non è collezione di linguaggi, ma laboratorio epistemologico, luogo in cui il corpo si fa soggetto conoscente, vettore di una filosofia incarnata.
La pluralità di pratiche e poetiche non è decorativa, né (peggio) riempitiva, ma strutturale: è nel conflitto tra posture, nella compresenza di paradigmi coreutici dissonanti, che si attiva il pensiero. Il pubblico, allora, non è semplice destinatario, ma co-agente; soggetto di una fenomenologia dello sguardo che partecipa attivamente alla costruzione del significato.
Alcune brevi note su tutte le creazioni incontrate.
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Ritorno altrove – Il sentimento come architettura mobile
Ritorno altrove mette in tensione il dispositivo teatrale con il flusso emotivo e il frammento poetico, componendo una partitura coreografica che alterna registri, codici, grammatiche.
L’intermittenza tra una danza narrativa, talvolta diaristica, e passaggi astratti o strutturalmente lirici evoca una memoria bauschiana, mai imitata ma piuttosto assorbita come sedimentazione coreografica.
Il solo di Eleonora Chiocchini in abito rosso – verticale, struggente, pieno e insieme effimero – si staglia come fulcro della composizione: un gesto di malinconica potenza che trasforma la scena in paesaggio interiore.
La coreografia, in particolare in un lirico frammento sui giochi infantili, sembra evocare il desiderio di una compiutezza perduta, nostalgia di un ordine simbolico primario, disarticolato e reinventato attraverso la scrittura del corpo.
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Breathing Room – Il respiro come soglia di senso
In Breathing Room di Salvo Lombardo la danza coincide con la vita nella sua forma più elementare: il respiro.
Elena Giannotti porta in scena una pratica che è insieme somatica e filosofica, dove la danza non rappresenta ma convoca, non mostra ma risveglia. L’esperienza coreografica si costruisce come campo di risonanza tra interno ed esterno: ogni gesto è un’onda che si propaga, ogni pausa un invito a un’attenzione nuova.
Il corpo, qui, non è né oggetto né soggetto, ma vettore: canale attraverso cui ciò che è invisibile si fa percepibile.
L’eco della filosofia orientale – lo zen in particolare – si percepisce nel modo in cui il vuoto non è mancanza, ma apertura; il gesto non è mera espressione, ma esercizio spirituale.
La comunità temporanea degli spettatori viene coinvolta non attraverso l’occhio, ma in primis mediante il diaframma: la danzatrice agisce come catalizzatrice di processi interni, attivando una forma di empatia percettiva che non passa per la narrazione, ma per l’organizzazione ritmica del vivente.
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A Human Song – Coreografia della relazione
Qui la danza è innanzitutto comunità.
A Human Song di Chiara Frigo mette in moto circa venti corpi diversi per età, formazione e presenza scenica, e li organizza in un flusso che non è solo formale, ma politico.
La palestra rettangolare in cui si svolge diventa luogo di possibilità, superficie di emersione di micro-drammaturgie relazionali. Il procedere in onde, l’avanzare e il retrocedere, costruiscono una geografia della coesistenza, dove ogni variazione nel movimento è anche mutamento nella percezione dell’altro.
In questa partitura si intrecciano proteste implicite, accenni di processioni laiche, codici quotidiani e sintassi astratte.
La danza qui non rappresenta un mondo, ma lo costruisce: è forma di aggregazione, di visibilità del comune, esercizio di etica e poetica insieme.
La Direzione Artistica che la propone fa un gesto importante: riconosce la danza come spazio in cui l’inclusione non è uno slogan, ma un atto concreto di composizione del possibile.
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BPM – Bodies per Minute – Il corpo come detonatore pop
Con BPM la danza si fa accesso diretto all’energia collettiva.
L’elemento coreografico si fonde con la vitalità del ballo da discoteca, slittando da struttura a impulso, da costruzione a pulsazione.
Il corpo, qui, è detonatore, superficie ritmica, macchina di contagio energetico.
Il pubblico, inizialmente spettatore in piedi sul Piazzale antistante il complesso di Sant’Anna, viene progressivamente assorbito in una spirale partecipativa.
È un atto che rinuncia alla verticalità della scena per immergersi nella coralità del presente.
In questo senso, BPM ridefinisce le soglie tra performer e fruitore, tra arte alta e cultura di massa, attivando una zona franca dove la danza torna a essere, come l’antica e fragile arte del teatro, gioco-rito-festa.
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Lamponi – Dal rito alla selvatichezza
Un cerchio di corpi, intrecciati da trecce elaborate e vestiti di tessuti preziosi, si muove nell’Orto Medievale poco dopo l’alba.
Lamponi di Silvia Dezulian è un poema coreografico che parte da una dimensione edenica per esplodere, progressivamente, in una vitalità animale, viscerale, scomposta.
La scena iniziale evoca un ordine simbolico di stampo mitico: una femminilità rituale, contemplativa, quasi sacrale.
Ma il gesto del nutrirsi – i lamponi mangiati con gesto lieve – innesca una metamorfosi: la natura inghiotte la cultura, la danza si slega dalla compostezza iniziale e si fa frenesia, coito, riso, battito, sudore.
I corpi si disordinano, le trecce si sciolgono.
E poi, nel finale, un nuovo ordine – che non è ritorno, ma trasformazione – si impone: le performer si ricompongono, si pettinano a vicenda, come sacerdotesse post-apocalittiche.
Lamponi è un ciclo coreografico che trascrive, nel corpo, l’eterno movimento dalla forma al caos, e ritorno.
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Il mondo altrove – Il corpo come attraversamento dell’opera
Nella prima grande sala della Galleria Nazionale dell’Umbria, immersa in una costellazione visiva di figure che da secoli impongono il proprio sguardo ieratico, la danza di Nicola Galli si insinua come un controcanto muto: non interferisce, non sovrascrive, ma si dispone lateralmente, accanto, come se il gesto potesse diventare una soglia.
Non c’è rappresentazione, ma rifrazione.
Il danzatore non interpreta, ma attraversa.
Il suo movimento si fa tratto obliquo, scivolamento di senso, gesto che non cerca mai la frontalità ma il margine, il riflesso, l’eco.
La danza qui è postura mascherata, articolazione segmentata, cesura, spostamento.
Il corpo si offre come figura liminare, entità porosa tra visibile e invisibile, tra materia e tempo.
È un corpo che non semplicemente occupa lo spazio museale, ma lo interroga, lo disegna nuovamente come cartografia percettiva.
In questa dinamica, la maschera non è travestimento, ma dispositivo di alterazione: permette di disabitare il sé, di farsi altro, di entrare nel dominio dell’estraneità.
Il volto coperto non cela ma espone.
Infine, le pietre – che si impilano, si spostano, si fermano – disegnano una partitura silenziosa sul tema del tempo e della permanenza.
L’opera d’arte dura, si stratifica, sedimenta; il corpo danza, il movimento svanisce, il fare si consuma.
Ma proprio in questa differenza, in questa frizione tra l’effimero e il durevole, si apre una possibilità di verità: la danza non compete con l’arte visiva, ma ne rivela l’ombra viva, la sua parte mobile, ancora disponibile a significare.
Il corpo, allora, non è ornamento ma strumento conoscitivo: un atto percettivo incarnato che riconfigura lo spazio e restituisce l’opera alla sua inquietudine originaria.
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Se domani – Lottare, toccarsi, reggere
Una coppia, prima due monadi, poi un corpo solo: in Se Domani di Elisa Sbaragli la danza è dialettica incarnata, esplorazione dell’incontro e della sua fragilità.
In uno spazio che oppone resistenza, i corpi si avvicinano, si sostengono, si piegano.
Il finale in abbraccio, forse mutuato dalla Pietà michelangiolesca, parla di reciprocità.
L’agone è tra corpo e spazio, ma anche tra volontà e necessità.
E proprio in questa tensione – tra il desiderio di fusione e l’irriducibile alterità dell’altro, tra la leggerezza del gesto e la gravità della materia che lo accoglie – si manifesta una scrittura del movimento che non rappresenta, ma espone il pensiero in atto: un pensiero che è fatto di peso, di equilibrio instabile, di fallimento come possibilità, di contatto come domanda radicale sull’essere e sull’essere-con.
È danza dell’incontro, senza sentimentalismo.
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Duo D’Eden – Archeologia del gesto
La memoria coreografica si rivela qui come territorio vivo, instabile, continuamente riscritto.
I due interpreti della MM Contemporary Dance Company, mascherati come presenze stranianti, agiscono su un repertorio storico – una creazione di Maguy Marin del 1986 – non come custodi ma come sismografi.
Anche in questo caso la maschera, lungi dall’occultare, rivela: il gesto è filtrato, amplificato, reso opaco per essere più leggibile, come se la distanza storica fosse condizione necessaria per la visione.
In questa opacità volutamente innaturale si ritrova l’eredità di May B, dove la maschera non copre ma dischiude: essa non simula un volto, ma rende visibile un’interferenza tra linguaggi.
Il corpo travestito non appartiene più solo al presente, ma diventa vettore di stratificazioni culturali e stilistiche, tra archetipi e residui beckettiani.
Così la coreografia si fa archivio incarnato, in cui la fedeltà non è imitazione ma tensione creativa, rilettura poetica, gesto che ricorda non per ripetere, ma per riattivare.
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Grosse Fuge – Il fiato e la danza
Ancora: MM Contemporary Dance Company rimette in vita un’altra creazione di Maguy Marin, questa volta per quattro interpreti.
La danza, qui, si libera definitivamente dell’ideale classico di leggerezza, rivelando la propria meccanica segreta: sforzo, tensione, ripetizione.
Il corpo attraversa lo spazio con precisione chirurgica: ogni gesto è calibrato, ma porta con sé una traccia di usura, di attrito con il reale.
Le quattro danzatrici non nascondono il respiro, anzi, lo lasciano emergere come elemento della partitura, in un passaggio cruciale in proscenio: il fiato accompagna il movimento, lo nutre, lo completa.
La composizione – millimetricamente strutturata – fa emergere una coreografia del dettaglio, in cui ogni micro-movimento si carica di peso specifico.
È una danza che non abbellisce, ma dichiara: la forma non è imposta, ma costruita nel tempo musicale e nel corpo.
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Cosmorama – Paesaggio come materia sensibile
In Cosmorama di Nicola Galli, incontrato poco dopo l’alba dei suggestivi spazi dell’Orto Medioevale, la danza negli spazi naturali trova una delle sue espressioni più lucide, più limpide: non ornamento paesaggistico, ma pratica percettiva che attiva il luogo, lo rende interlocutore, lo trasforma in drammaturgia.
Qui il paesaggio non è sfondo, ma materia sensibile; la natura non fa da cornice, ma partecipa alla scrittura dell’evento, con la sua luce e le sue temperature, i suoi suoni e resistenze.
I due performer, figure rarefatte dai movimenti spezzati e lievi, sembrano venuti da un altrove marziano: vestiti di capi asettici, algidi, portano lunghi tubi metallici, scintillanti e verticali, che rimandano tanto a un’iconografia da Guerre stellari quanto a un’idea metafisica della materia.
Il loro muoversi – lento, calibrato, sempre innaturale – si avvicina a una pratica monastica o meditativa: un Tai Chi postumano in cui il gesto non imita la natura, ma ne rivela l’intelaiatura nascosta, ne amplifica le vibrazioni invisibili.
La musica, rarefatta e ritmata da vocalizzi ariosi, battiti e risonanze, accompagna questo rito minimale dell’attenzione, mentre la luce del mattino – non progettata, ma accolta come parte viva dell’opera – disegna figure, scolpisce profili, partecipa alla coreografia.
Posture innaturali, oblique, eleganti come certi corpi del Rinascimento, rendono più visibile ciò che spesso non guardiamo: il campo, gli alberi, l’aria stessa. Non per somiglianza, ma per contrasto. La cultura si fa filtro per riattivare il naturale, come se danzare – davvero – significasse imparare di nuovo a vedere.
Alla fine, quando tutto si placa, resta una scultura: un tubo innalzato verticalmente, eco formale della pila di pietre vista il giorno prima alla Galleria Nazionale dell’Umbria.
È il gesto che si ritira e lascia un segno, una verticale che buca il cielo.
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G.O.A.T.S. / Kama – Ironia pensante
La figura del trickster – il mediatore ambiguo tra mondi, il clown sacro, il giullare eretico – viene reinventata da Gianni Notarnicola (da solo o in duo con Billy Barry) attraverso la moltiplicazione dei codici.
L’interprete attraversa danza, stand-up, gioco con il pubblico, ridefinendo di continuo la comune cornice percettiva.
Nulla è stabile: ogni forma è subito sovvertita, ogni struttura smascherata.
L’ironia è strumento conoscitivo, gesto maieutico, creazione di complicità.
Il performer diventa macchina da guerra semiotica: decostruisce i linguaggi, li espone come materia, li fa implodere per rivelarne le contraddizioni.
È un agire incarnato, dove la risata si fa pensiero, il disorientamento diventa spazio critico.
La danza, qui, non è solo disciplina, ma potenza trasformativa del corpo che pensa, che scarta, che gioca.
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My body is your body – Verticalità e vertigine
Nel contesto di una performance dove i confini tra arte e vita si fanno porosi, la fisicità estrema di Mijin Kim, Maiol Pruna Soler e Francesco Germini agisce come dispositivo di vertigine.
Le torri umane, i lanci, le prese non sono numeri circensi, ma metafore incarnate della fiducia, del rischio, dell’equilibrio precario che regola ogni relazione.
La progressiva nudità non è qui elemento erotico, ma gesto anatomico, diagramma della forza e della vulnerabilità.
Il disegno coreografico, visto da una platea eterogenea e vicina – bambini, anziani, pubblico vario e non sempre educato ai riti e alle regole della fruizione teatrale (ah, i cellulari!) – lavora su una soglia condivisa tra stupore e immedesimazione.
Il corpo diventa scrittura verticale, linea che taglia lo spazio, ma anche carne che si espone, che si affida all’altro.
Un corpo che non domina, ma dipende: e in questo affidamento, mostra la propria verità.
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Stuporosa – Pianto come linguaggio
Ultimo quadro, radicale e fragile.
Lo spettacolo che chiude il Festival, Stuporosa di Francesco Marilungo, abita quello che Ernesto De Martino analizzava come lo stato liminare in cui il soggetto rischia di perdersi, ma tenta un nuovo atto di fondazione.
La coreografia, vincitrice del Premio Ubu 2024, si muove in un territorio apparentemente senza centro: passettini, scivolamenti, gesti spezzati.
Il pianto – vocalizzato, amplificato, distorto – non è effetto, ma linguaggio.
Non rappresenta un’emozione: la genera, la struttura, la rende pura forma.
La danza si fa qui canto tragico, partitura dell’irrappresentabile.
Nulla è espressivo in senso classico: tutto è esposizione.
Il dolore non viene raccontato, ma reso linguaggio.
L’azione scenica abita un tempo deformato, in cui ogni gesto sembra già postumo, ogni movimento una sopravvivenza.
È forse questa la conclusione più corretta, per questo Umbria Danza Festival che abbiamo avuto la fortuna di incontrare: non trionfo di un’estetica, ma permanere ostinato di una domanda.
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Umbria Danza Festival, davvero una palestra del possibile: un luogo in cui i corpi si mettono al lavoro, in uno spazio condiviso, per generare possibilità.
Non per definire ciò che la danza è, ma per immaginare ciò che ancora può essere.
E quali nuovi occhi potrà, domani, incontrare.
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[ tutte le fotografie sono opera di Simone Rossi ]
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